Roma, 29 giu – È passato quasi totalmente sotto silenzio il 150esimo anniversario della nascita di Luigi Pirandello, nato il 28 giugno 1867 a Girgenti, come allora si chiamava Agrigento, e che in fin dei conti ha semplicemente vinto un premio Nobel quando ancora questo valeva qualcosa e cambiato per sempre il volto della letteratura italiana. L’oblio è probabilmente figlio del generale abbrutimento, che cancella ogni tipo di riferimento non spendibile in un tweet, ma forse anche delle note opinioni politiche del drammaturgo siciliano, che non fece mancare il suo sostegno al fascismo anche nelle ore più difficili. Come noto, Mussolini aveva invitato Pirandello a Palazzo Chigi, il 22 ottobre 1923. Il giorno dopo, su L’Idea Nazionale, lo scrittore aveva spiegato in un’intervista i contenuti del colloquio, aggiungendo: “Mussolini sa, come pochi, che la realtà sta soltanto in potere dell’uomo di costruirla e che la si crea soltanto con l’attività di spirito”. Concetto, a ben vedere, sostanzialmente attualista e schiettamente gentiliano.
Qualche giorno dopo, nel primo anniversario della Marcia su Roma, il 28 ottobre 1923, ancora L’Idea Nazionale, organo dei nazionalisti, riportava un corsivo a firma di Pirandello intitolato “La vita creata”. Così recitava il testo: “Non può non essere benedetto Mussolini, da uno che ha sempre sentito questa immanente tragedia della vita, la quale per consistere in qualche modo ha bisogno d’una forma; ma subito, nella forma in cui consiste, sente la morte; perché dovendo e volendo di continuo muoversi e mutare, in ogni forma si vede come imprigionata, e vi urge dentro e vi tempesta e la logora e alla fine ne evade: Mussolini che così chiaramente mostra di sentire questa doppia e tragica necessità della forma e del movimento, e che con tanta potenza vuole che il movimento trovi in una forma ordinata il suo freno, e che la forma non sia mai vuota, idolo vano, ma dentro accolga pulsante e fremente la vita, per modo che essa ne sia di momento in momento ricreata e pronta sempre all’atto che la affermi a se stessa e la imponga agli altri. Il moto rivoluzionario da Lui iniziato con la marcia su Roma e ora tutti i modi del suo nuovo governo mi sembrano, in politica, l’attuazione propria e necessaria di questa concezione della vita”. Tanto il fascismo quanto la concezione della vita di Pirandello, a detta dello stesso scrittore agrigentino, si basavano su questa continua lotta di movimento e forma, fra il tentativo titanico di fissare il divenire in qualcosa di stabile e il necessario aggiornamento continuo di queste forme in un nuove strutture solide, destinate a essere costantemente rinnovate in una vera e propria rivoluzione permanente. La potenza del politico, dell’uomo di Stato, del condottiero, sta per l’appunto nella sua capacità di saper dare una forma stabile al divenire, ma anche nella sua consapevolezza di quanto sia vano attaccarsi alle piccole sicurezze di stabilità che tali forme possono offrire, poiché tutto è in continuo rimescolamento.
In occasione del caso Matteotti, come noto, Pirandello sorprese tutti indirizzando, il 17 settembre 1924, questo telegramma a Mussolini: “Eccellenza, sento che questo è il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita in silenzio. Se l’ Eccellenza Vostra mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregierò come massimo onore tenervi il posto del più umile e obbediente gregario. Luigi Pirandello”. Commentando con De Begnac questo gesto, Mussolini non nasconderà la sua sorpresa e confesserà di aver cambiato giudizio sul senso globale dell’opera e dell’uomo proprio in quell’occasione. Dirà il Duce: “Credevo – prima di allora – che Pirandello fosse il poeta dell’indecisione. E, invece, questo mio amico eminente è il poeta della certezza, colui che ci toglie dall’indecisione”. Singolare rispecchiamento, dato che l’uscita dall’incertezza, la decisione per la forma era esattamente la qualità del grande uomo di genio che Pirandello riscontrava in Mussolini.
Anche altri esponenti del fascismo, del resto, spiegheranno l’adesione dell’intellettuale siciliano al movimento delle camicie nere esattamente su questa scia. È il caso di Telesio Interlandi, che qualche giorno dopo il clamoroso endorsement di Pirandello per il Pnf farà visita al drammaturgo, illustrando poi le sue ragioni in questo modo: “L’intuizione pirandelliana della vita politica è sostanzialmente fascista (e tale era anche prima che il Fascismo si definisse) in quanto nega i concetti di assoluto (vedi immortali princìpi) e afferma la vitale necessità della continua creazione di illusioni, di realtà relative, mete sempre fuggenti delle aspirazioni umane che, così solo, in questa perpetua corsa a una verità mai raggiungibile in assoluto, possono vivere e dar frutti. Il Fascismo infatti nega l’assoluto di ideologie che furono ieri realtà relative e nobilissime mete: il Fascismo afferma che la vita di un popolo non può raggelarsi in una forma che, per esser forma, non è più dunque vita, impetuoso divenire senza requie; il Fascismo crea per sé, e impone, a quelli che non sanno crearsene una per proprio conto, la nuova realtà verso cui occorre tendere con tutte le forze, salvo poi a superarla nel momento stesso in cui la si conquista. In questo perpetuo implacabile tendere verso forme nuove, in questo divenire affannoso è la vita dei popoli, è la Vita; e quella che gli avversari e gli spiriti più tardi chiamano normalizzazione altro non è se non Morte, l’adagiarsi in un sarcofago dal quale non sarebbe più possibile slancio alcuno”. È il sarcofago mortifero in cui siamo finiti tutti noi.
Adriano Scianca