Roma, 16 mag -Il Ministro degli Esteri Angelino Alfano, ieri, si è complimentato con la procura di Catanzaro per i quasi settanta arresti tra Crotone e Catanzaro, nell’ambito di un’inchiesta che coinvolge la cosca Arena, il business dei migranti e non solo. Ma non sono state sufficienti le congratulazioni ad impedire che in tanti, M5S e Fratelli d’Italia in primis, ne chiedessero le dimissioni dal suo ruolo di governo in seguito ad una foto che continua a circolare e che ritrae lo stesso Alfano insieme a tre indagati nell’ambito dell’operazione Johnny: Leonardo Sacco, ritenuto il raccordo tra istituzioni e clan nell’ambito della gestione del centro d’accoglienza di Isola Capo Rizzuto, e poi Antonio e Fernando Poerio, che ne avevano gestito il servizio di fornitura pasti.
Il ministro si è subito goffamente giustificato: “Facendo politica, ciascuno ha migliaia di foto: per carattere, non mi sottraggo quando mi chiedono una foto. E non mi pare che sia stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano il reato di fotografia”. Ancora più infantile la risposta data ai grillini: “chi è guidato da un condannato dovrebbe avere rispetto per l’incensurato”. Un po’ poco per un’inchiesta sulla quale nessuno ha il diritto di scherzarci su. E, senza dover prendere le difese di Grillo – che comunque non è ministro e le sue colpe, accertate e sanzionate, non hanno comunque ricadute politiche -, è semplicemente inaccettabile che si faccia ironia per aggirare una questione al contrario serissima.
Non è possibile che un ministro faccia passare la foto con l’ex vice-presidente nazionale delle Misericordie come una foto qualunque, scattata con un ammiratore qualunque. Innanzitutto, lo scatto è del 9 febbraio 2014: Alfano è ministro dell’Interno e si occupa in prima persona dell’emergenza sbarchi e dell’accoglienza. E uno dei protagonisti, Fernando Poerio, è già stato scalzato dal servizio di fornitura dei pasti a causa del ritiro del certificato antimafia per i suoi contatti con i clan. Leonardo Sacco, attualmente a capo della sezione regionale delle Misericordie, già consigliere d’amministrazione dello scalo aeroportuale crotonese, alla guida di quello che l’Espresso in una inchiesta definì “un’impero”, non era esattamente uno sconosciuto, tant’è che il 27 aprile 2011 proprio Sacco, insieme al parroco di Isola Capo Rizzuto (anche lui arrestato e considerato figura centrale nella gestione) don Edoardo Scordio, incontra anche l’allora Ministro della Gioventù Giorgia Meloni e sul sito dell’ente ne vantano il legame di lunga data: “ha più volte dimostrato attaccamento alle confraternite delle Misericordie d’Italia e in particolare a quella di Isola di Capo Rizzuto alla quale non ha fatto mancare il proprio apprezzamento in occasione della inaugurazione degli immobili confiscati alla ‘ndrangheta che si è svolta il 16 dicembre 2009”. Già allora, peraltro, Alfano era ministro dello stesso governo Berlusconi di cui faceva parte la Meloni.
E lo stesso ex capo del governo Berlusconi, così come l’ex premier Renzi, ma anche Salvini in occasione di una visita al centro d’accoglienza, è stato fotografato insieme a Leonardo Sacco. Quanto alla foto con Alfano, però, è importante notare che viene scattata nel corso di una cena svoltasi a Cosenza, a margine della convention dei vertici calabresi proprio del Nuovo Centro Destra, partito fondato proprio da Alfano (di recente disfatto in fretta e furia in favore di una nuova sigla, Alternativa Popolare che, stando agli ultimi sondaggi, elettoralmente vale zero). Ed è curioso che, stando alle intercettazioni degli stessi interessati, gli invitati a quella cena erano stati sottoposti a controlli preventivi da parte dello staff, che dunque sapeva benissimo chi c’era a quella cena ed è strano che il ministro, per giunta capo del partito, sia stato tenuto all’oscuro di tutto, così come è strano che i controllori abbiano dato l’ok. Perché sarebbe successo se i personaggi non avessero avuto un certo credito in quegli ambienti? Un qualche credito, evidentemente, l’aveva, considerando anche che Leonardo Sacco, attenzionato dal Ros già dal 2007, pochi mesi dopo l’incontro, otteneva l’affidamento d’urgenza anche della struttura di Lampedusa. E anche in quella vicenda, come abbiamo ricordato ieri, era finito in mezzo il ministro Alfano, dal momento che a ricoprire il ruolo di direttore del centro non era stato chiamato esattamente uno qualunque. L’incarico era stato infatti affidato a Lorenzo Montana, suocero del fratello del ministro Alessandro Alfano, che si era poi ritirato in seguito ad un’inchiesta in proposito de “Il Fatto quotidiano”. Montana all’epoca si era difeso: “hanno valutato attentamente le mie specificità e hanno ritenuto che fossi idoneo per dirigere questa struttura così importante come il Cpsa”. Salvo poi esser smentito da un comunicato delle Misericordie stesse che, per uscirne puliti, dichiararono: “Lorenzo Montana non ha un ruolo direttivo nell’ambito del Cpsa di Lampedusa, anche perché non ha i requisiti per un simile ruolo”. Fatto sta che, prima ancora di firmare, l’incarico saltò.
Laura Ferrara, europarlamentare del M5S, ricorda: “Dalla mia visita ispettiva del 2014 subito dopo l’insediamento al Parlamento europeo, emersero tutte le criticità e le anomalie rispetto al modus operandi dell’ente gestore, le Misericordie del Governatore Leonardo Sacco. Nessun tipo di trasparenza sui contratti e le convenzioni, difficili da reperire anche dopo espresse richieste alla Prefettura”. E’ strano, ad esempio che, tolto il servizio fornitura all’imprenditore Fernando Poerio per legami con i clan, a sostituirlo ci abbia pensato poi la Quadrifoglio srl di proprietà del cugino Pasquale, consigliere comunale di Forza Italia, primo eletto nella lista dell’attuale sindaco Bruno e che oggi figura tra gli arrestati. A confermare i legami soldi con la politica, del resto, ci pensa lo stesso procuratore Nicola Gratteri, che ha guidato l’inchiesta: “Ancora non siamo appagati: si vedranno i rapporti di Sacco con altri pezzi delle istituzioni“, ha dichiarato annunciando il prosieguo dell’inchiesta.
Ma, a parte le responsabilità ipotizzate per le istituzioni di livello nazionale – le quali sembra non si fossero accorti dei quasi quaranta milioni di euro su cento dirottati in otto anni nelle casse dei clan, delle stranezze legate ad un ente che teneva di fatto in mano l’economia del paese, che dà lavoro a circa trecento famiglie, gestisce il poliambulatorio, il centro anziani, un ex cinema e la polisportiva, permette al parroco di intascare oltre 100mila euro per servizi di assistenza spirituale-, l’inchiesta affonda le sue radici in una criminalità che, a parte il business migranti, continua a controllare con la violenza il territorio, da Crotone a Catanzaro. Perché, è vero, questa inchiesta parla di cibo scadente dato ai migranti, di ragazzi come Kibron Tsesuly che a 29 anni ha speso 3.400 dollari per venire in Italia dall’Eritrea su una piccola barca di legno, di Djabati Alassane, 23 anni, che in Costa d’Avorio faceva il meccanico ma qui, spiega a “La Stampa”, “non faccio nulla, non c’è nulla da fare: mangio e dormo, e poi di nuovo mangio. E poi dormo”. E ci parla di corruzione, truffa, malversazione. Ma dietro tutto questo, nelle carte dell’inchiesta che pian piano stanno venendo fuori, dietro il colletto bianco trentottenne di Cariati, c’è una criminalità che è ancora fatta di omicidi, corpi carbonizzati, faide ed estorsioni. Il controllo del business dell’accoglienza, ci ricorda soltanto uno Stato che in ampie porzioni di territorio è stato per troppo tempo colpevolmente assente, troppo spesso forte coi deboli e debole coi forti. Perché sono i forti che poi portano i voti.
Emmanuel Raffaele