Roma, 30 apr – Siamo con molta probabilità in un’epoca di passaggio, di forti cambiamenti da un apparentemente consolidato modello di sviluppo neoliberale, globalizzato e finanziario a qualcosa che non sappiamo ancora cos’è. I segnali ci sono tutti, ed i parziali successi dei movimenti cosiddetti “populisti” come il Fn in Francia ne sono una parziale manifestazione. Per capire di cosa stiamo parlando non sarà inutile volgere lo sguardo al passato, ovvero a quando questo modello di sviluppo è in effetti venuto alla luce. Se non si capisce come la storia del capitalismo (e quindi la storia degli ultimi tre secoli) sia ruotata interamente intorno alla definizione del concetto di moneta, non si può capire cosa sta succedendo adesso, e non si può tentare di indovinare cosa accadrà in futuro.
C’è da dire, anzitutto, che praticamente sino al 19° secolo la circolazione di valuta era indifferentemente espressa in oro, argento o rame. La nascente potenza imperiale britannica fin da subito (con Newton governatore della Banca d’Inghilterra) individuerà nell’oro il proprio feticcio monetario. Abbiamo già visto in passato come l’élite finanziaria che ha sede (ieri come oggi) nella city di Londra sia irrimediabilmente attratta dalla deflazione, che rivaluta costantemente il valore reale dei propri asset. Ebbene, nulla di meglio dell’oro per questo scopo, metallo inossidabile ed al contempo piuttosto raro, dunque deflattivo per definizione ed al contempo molto comodo da trasportare e da conservare. L’obiettivo era quello di unire in un sistema di cambi fissi ancorati in questo caso all’oro tutte le valute del pianeta, e così rendere semplice la circolazione dei capitali e la loro infinita valorizzazione, usando ieri la potenza militare britannica ed oggi prevalentemente quella americana.
Prima del 1870 dal punto di vista della circolazione della moneta, il mondo può ancora dirsi suddiviso grossomodo in tre aree in tre aree: quella ad esclusiva circolazione aurea, ovvero il Regno Unito; quella in cui era in vigore un regime di circolazione argenteo, come gli Stati Tedeschi, l’Impero Austro-Ungarico, la Russia, la Scandinavia e l’Estremo Oriente; gli Stati a regime “bimetallico”, quelli che avevano cioè adottato la contemporanea circolazione di valuta d’oro e d’argento, di cui la Francia sicuramente costituiva il più importante esempio. Il 1865 vede la nascita dell’Unione Monetaria Latina, composta da Belgio, Francia, Italia, Svizzera e Grecia che stabilì un comune valore di convertibilità delle monete d’argento. Gli eventi della guerra franco-prussiana del 1870 costringeranno Francia, Russia, Italia ed Impero Austro-Ungarico, a sospendere la convertibilità delle proprie valute.
Il successivo passaggio globale al Gold standard a trazione britannica ebbe varie cause, ma non dobbiamo dimenticare il profondo influsso ideologico esercitato in ambiente liberale dal filosofo ed economista David Hume, ovviamente un anti-statalista convinto. Secondo Hume se un paese importatore importa più di quello che esporta, l’uscita di valuta aurea a fronte dei pagamenti ne deflazionava l’economia causando la caduta dei prezzi rendendolo più competitivo. Viceversa un esportatore netto, avrebbe visto i propri prezzi salire a causa dell’ingresso di oro dall’estero. Il riequilibrio della situazione si verificava allorquando il paese esportatore cominciava ad importare i beni meno costosi dei propri ex acquirenti, e questi ultimi si trasformavano in esportatori. Una teoria talmente semplice e talmente stupida da meritare ad Hume la palma di “paladino del libero scambio” ed innumerevoli peana sui libri di storia. La verità è che la difesa di un sistema di cambi fissi, e noi nell’Eurozona ne sappiamo qualcosa, comporta necessariamente l’adozione di politiche deflazionistiche che vanno a detrimento dei lavoratori autonomi e subordinati, ma avvantaggiano enormemente l’oligarchia di cui sopra, ed è questo il motivo che spinge sempre alla ricerca della “stabilità monetaria”.
Sostanzialmente, fino alla Prima Guerra Mondiale il Gold Standard funzionò come una sorta di rullo compressore dei salari di mezzo mondo, con la City come centro di gravità permanente della speculazione finanziaria e delle guerre coloniali. Il conflitto lascerà, difatti, le economie europee disastrate: debiti ed inflazione la faranno da padrone in tutto il vecchio continente. Per poter sostenere l’immane sforzo bellico, le nazioni europee saranno costrette ad emettere divisa a “corso forzoso”, ovvero non garantita da riserve, la quale causerà grandi variazioni nei tassi di cambio. Il riallineamento al sistema aureo avverrà gradualmente nel corso degli anni Venti. Nel ’23 e nel ’24 Austria e Germania riallineeranno le proprie valute ai precedenti parametri, nel ’26 e nel ’27 sarà la volta di Francia ed Italia. L’Italia però fisserà i propri cambi a livello di mercato, senza contrastare troppo l’inflazione, come si faceva nel resto d’Europa, proprio per tutelare le classi deboli. E qui va spesa una parola in difesa dell’operato economico e finanziario del fascismo uscendo per un attimo dalla stantia retorica della “quota 90”. Fu un atto dovuto per poter ripagare gli immensi debiti di guerra, e probabilmente hanno ragione i suoi critici più feroci, dato che la deflazione colpisce sempre le classi più deboli. Costoro però non solo si dimenticano che anche negli altri Stati si seguivano politiche analoghe ma anche che il regime fascista fu l’unico che tentò di mitigare gli effetti negativi delle sue politiche deflazionistiche attraverso il controllo politico dei prezzi e le prime forme di Stato sociale. La successiva crisi che mise in ginocchio mezzo mondo (ma non l’Italia) indusse il Duce a gettare definitivamente alle ortiche le teorie liberali dei vari Volpi di Misurata e frammassoni vari, ed optare decisamente per un modello interventista nell’economia, accompagnata ovviamente alla flessibilità del cambio come necessario strumento di controllo dei flussi commerciali.
Dopo la guerra saranno gli Usa a raccogliere il testimone imperiale, ovviamente imponendo anche essi un sistema a cambi fissi di natura planetaria legato al dollaro tramite gli accordi di Bretton Woods, ma (memori del disastro del Gold Standard) vi aggiunsero alcuni correttivi di puro buon senso. In primo luogo, i cambi erano si fissi, ma potevano essere periodicamente “aggiornati” in caso di squilibri consistenti e strutturali della bilancia commerciale. In secondo luogo venne creato il Fmi, che prima di essere uno strumento di dominio anche esso, nacque allo scopo di finanziare il deficit estero delle economie più deboli. Infine, era esplicitamente prevista la possibilità di difendersi dalle politiche mercantilistiche altrui tramite l’adozione anche unilaterale di dazi doganali, nella cosiddetta “clausola della valuta scarsa”.
Certamente, il sistema era comunque instabile ed infatti durò solo fino al 1973, quando Nixon si sbarazzò della parità del dollaro con l’oro, facendo di fatto crollare tutto l’impianto. Sappiamo bene del resto come in Europa fin dal “serpente monetario”, passando per lo Sme ed arrivando all’Euro si siano fatti notevoli tentativi per tentare di arginare la fluttuazione valutaria. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.
Matteo Rovatti