Quinta puntata della nostra indagine sul liberalismo
Le puntate precedenti:
- Indagine sul liberalismo/1 Il rifiuto della politica
- Indagine sul liberalismo/2 La dissoluzione delle società e delle identità
- Indagine sul liberalismo/3 La finta scienza dell’economia
- Indagine sul liberalismo/4 La retorica moralistica alla base dell’economicidio nazionale
Roma, 12 mar – Checché se ne possa pensare, l’odierna compagine nota come “sinistra radicale” non ha sostanzialmente molto a che fare con il comunismo, inteso come dottrina marxista-leninista, salvo un punto che affronteremo in seguito. Possiamo tranquillamente affermare che la sinistra radicale sta al comunismo come la destra radicale sta al fascismo: adesione estetica, sentimentale ed identitaria ma non dottrinale. Già il fatto di identificarsi all’interno dell’asse destra-sinistra vuol dire riconoscere implicitamente il sistema liberalcapitalista che quell’asse ha forgiato (oltretutto in epoche in cui nemmeno esisteva il suffragio universale e la politicizzazione delle masse) come propria definizione interna.
In effetti, a ben guardare, tanto il fascismo quanto i vari regimi comunisti che hanno spadroneggiato su mezzo globo, hanno sempre presentato al proprio interno divisioni anche molto nette fra una “destra” ed una “sinistra” propria, e persino, almeno nel caso del fascismo, un “centro” che possiamo riconoscere nella dottrina di Mussolini e Gentile. Se però la destra radicale ha quantomeno il diritto di presentarsi (seppur spesso velleitariamente) come visione del mondo decisamente anti-sistema, non condividendo in nessun senso lo stato di cose presenti e rifugiandosi in parole d’ordine reazionarie e politicamente impotenti, la sinistra radicale è l’autentica quinta colonna di quell’oligarchia finanziaria anglofona che abbiamo visto essere il motore della cosiddetta “globalizzazione”, cioè dell’abbattimento di ogni frontiera nazionale per favorire, attraverso un liberoscambismo integrale, la continua e potenzialmente illimitata valorizzazione del capitale.
Lo possiamo vedere tutti i giorni come i cosiddetti “antagonisti” siano sempre in prima fila per esempio per favorire l’importazione di manodopera allogena o per disturbare i comizi delle forze “populiste” che negano le magnifiche sorti e progressive dell’integrazione europea voluta precisamente dall’imperialismo americano che stringe l’Europa nelle sue ganasce dal secondo dopoguerra. Pare che il motto guevarista “Patria o muerte” non sia entrato loro particolarmente in testa. Esiste una ragione per questo comportamento apparentemente schizoide, ed è nel rapporto ambiguo che la sinistra radicale ha con il liberalismo. Mentre la destra radicale lo rifiuta in toto, pur solitamente senza saperne nulla, la sinistra radicale parte dal presupposto che esista un liberalismo economico cattivo da combattere (il che, come sapranno i nostri lettori, ha un senso) ma al contempo un liberalismo politico ed un liberalismo culturale buono da difendere a spada tratta (cosa che viceversa ha molto meno senso).
Questo comporta che, se a parole per esempio si condanna lo sfruttamento padronale del lavoro subordinato, poi nei fatti si tenta di favorire in tutti i modi l’accesso di africani al sistema socio-economico nazionale. Questa scissione si giustifica con il fatto che l’immigrazione non viene affrontata sotto l’aspetto economico, ma sotto l’aspetto politico e culturale secondo una chiara visione liberale del fenomeno. L’allogeno “ha diritto” di girare liberamente per il mondo, “ha diritto” di scegliere un posto in cui stare, “ha diritto” a fare concorrenza ai lavoratori autoctoni per un boccone di pane, mentre il grasso capitalista tanto detestato se la ride.
Esiste una precisa ragione storica e filosofica a questa schizofrenia, che rimanda appunto all’unico aspetto che la sinistra radicale ha mantenuto del comunismo. Tanto il liberalismo quanto il comunismo – e l’anarchismo, sia detta di passata – concepiscono l’identità di libertà e natura. Ciò comporta il rifiuto ideologico dello Stato inteso come mediazione politica del conflitto e quindi della sua immanente eticità. Questa è la grande rottura di Marx con Hegel, di cui comunque mantiene appieno alcuni presupposti filosofici e metodologici: per il maestro la società civile è eticità essenzialmente estraniata da se stessa, cioè preda di una conflittualità che nessun moto interno può comporre, la cui negazione comporta perciò la negazione della società civile stessa, ossia lo Stato. In altre parole la conciliazione della società civile è reale soltanto sulla base dalla possibile ostilità esterna, ovvero il conflitto della società civile è realmente domato dallo Stato non per un suo arcano potere magico, ma perché ogni Stato deve fronteggiare il rapporto potenzialmente ostile con altri Stati. Possiamo dirlo anche più brutalmente: è l’eventualità della guerra che smussa il conflitto di classe e trasforma in Stato la società civile realizzandovi la conciliazione che in essa è eternamente potenziale; è l’esigenza di sovranità verso l’esterno che fonda la sovranità verso l’interno, che cioè impedisce il radicalizzarsi della differenza tra gli individui.
Questo è inammissibile per chi nega (come tutto il pensiero progressista) la guerra come necessario corollario dell’individualità, che per definizione è repulsione dell’altro, e porta quindi a negare ogni pretesa identitaria collettiva e in particolare nazionale perché questa comporta necessariamente a distinguere un “noi” da un “loro”, cioè a rompere l’unità teorica dell’umanità che si vorrebbe anche pratica. Non vogliamo certamente negare l’esistenza dell’umanità come dato antropologico, ovvio, semplicemente constatare quanto sia folle pensare che fra individuo ed umanità non si situi necessariamente qualcosa di ulteriore, e cioè la nazione, con la sua lingua, il suo ethos e la sua specificità storica irripetibile.
Come già aveva compreso Machiavelli, all’interno la sovranità dello Stato consiste dunque nel domare l’oligarchia, mentre l’eterna polemica contro il dispotismo dello Stato è sempre difesa del privilegio oligarchico. Non importa che a protestare siano delle zecche strafatte con le pezze al culo come vediamo a Napoli in questi giorni: si tratta, leninisticamente parlando, di utili idioti del capitale che magari credono di battersi per una causa sociale e comunitaria. Non parliamo poi, ovviamente, di quelli come le femministe, il movimento LGBTQXYZ o i promotori dell’eutanasia i quali si battono nel nome di parole d’ordine dichiaratamente filo-oligarchiche. Questi non sono utili idioti, ma cagnolini fedeli che vengono ricompensati con qualche biscottino prelibato, per esempio attraverso la possibilità di comprare bambini da poveracce per poterseli “spupazzare” fra un chem party ed un pomeriggio di shopping.
L’unico antagonismo possibile è quello che possa rivendicare lo Stato come eticità immanente ed incarnata, di fronte al quale ogni individualità deve trovare la sua conciliazione, il che non vuole appunto dire annullamento livellante e sbirresco. Forse, la dottrina dei due grandi uomini a cui abbiamo accennato poc’anzi potrebbe costituire un ottimo punto di partenza.
Matteo Rovatti