Roma, 25 feb – Nel calendario romano il 24 febbraio veniva celebrata una importante ricorrenza: la fuga del re (regifugium).
Tito Livio racconta il crimine, consumato durante l’assedio di Ardea, che portò alla cacciata di Tarquinio il superbo, settimo e ultimo Re di Roma: “La vita militare al campo, come avviene in una guerra più lunga che aspra. dava luogo a licenze abbastanza frequenti, tuttavia più per gli ufficiali che per i soldati. I giovani della famiglia regia, ad esempio, passavano il tempo in conviti e in baldorie. Per caso, mentre gozzovigliavano presso Sesto Tarquinio, e insieme con loro pranzava anche Collatino Tarquinio figlio di Egerio, il discorso cadde sulle mogli. Ciascuno elogiava ardentemente la propria; e si accese una disputa. Collatino disse che non c’era bisogno di parole: si poteva accertare nello spazio di poche ore quanto sopravanzasse le altre la sua Lucrezia. “Perché, giovani vigorosi come siamo, non montiamo a cavallo e non andiamo di persona a vedere il comportamento delle nostre donne? La prova più manifesta sarà data da quanto apparirà ai nostri occhi all’arrivo improvviso del marito”. Erano caldi di vino; e tutti gridano “Andiamo!”. A spron battuto volano a Roma. Vi giungono al primo cader delle ombre; di là proseguono per Collazia; dove trovano Lucrezia non come le regie nuore, che avevano veduto passar con le amiche il tempo in dissoluti banchetti, ma seduta nel mezzo dell’atrio, a notte inoltrata, intenta a filare la lana fra le ancelle veglianti operose. In quella gara della virtù femminile la vittoria fu di Lucrezia. Ella accolse gentile il sopraggiunto marito e i Tarquinii. Il marito vincitore invita i giovani regii gaiamente a cena. E là una trista brama invase Sesto Tarquinio di violentare Lucrezia: la bellezza e la mirabile castità lo eccitavano. Ma intanto da quel notturno divertimento giovanile essi tornarono al campo. Trascorsi pochi giorni, Sesto Tarquinio ad insaputa di Collatino, con un solo compagno, andò a Collazia. Qui fu cortesemente ricevuto, tutti ignorando il suo proposito; e poi che dopo la cena fu introdotto nella camera degli ospiti, arso d’amore, quando tutto gli parve abbastanza sicuro all’intorno e tutti erano immersi nel sonno, si recò, con una spada in pugno, presso Lucrezia dormiente; e premendo con la mano sinistra il seno della donna, disse: “Taci, Lucrezia; sono Sesto Tarquinio, ho in mano la spada; se gridi, ti uccido”. E mentre la donna, destatasi di soprassalto atterrita, vedeva ogni soccorso impossibile e soltanto la morte sopra di sé, Tarquinio le svelava il proprio amore, la pregava, univa alle preghiere minacce, agitava in tutti i modi l’animo della donna. E come la vedeva ostinata nel respingerlo e neppure piegarsi al terrore della morte, aggiunse al terrore l’infamia: disse che avrebbe messo accanto a lei morta uno schiavo nudo strangolato, perché si credesse ch’era stata uccisa nell’ignominia di turpe adulterio. Poi che la libidine aveva quasi a forza vinto col terrore l’ostinata pudicizia e Tarquinio era partito fiero dell’espugnato onore della donna, Lucrezia, dolente per la grande sventura, mandò un messaggero medesimo al padre in Roma e al marito in Ardea perché venissero a lei coi loro amici più fidi; cosi era da farsi e sùbito: era accaduta una cosa atroce. Spurio Lucrezio venne con Publio Valerio figlio di Voleso, Collatino con Lucio Giunio Bruto, insieme al quale era stato casualmente incontrato ritornando a Roma dal messaggero della moglie. Trovarono Lucrezia turbata, seduta nella camera da letto. All’arrivo dei suoi proruppe in lacrime; e al marito che le chiedeva “Stai bene?”, “No”, disse; “come può star bene una donna che ha perduto la pudicizia? Nel tuo letto, Collatino, ci sono tracce di un altro uomo. Ma solo il corpo è stato violato, l’animo è innocente; lo attesterà la morte. Ma datemi le destre e giurate che l’adultero sarà punito. Sesto Tarquinio è quello che, nemico in parvenza di ospite, qui, la scorsa notte, armato, si è preso un godimento per me e per lui funesto, se voi siete uomini”. Tutti giurarono uno dopo l’altro; consolarono la dolente riversando la colpa da lei violata sull’autore del delitto: dissero che non il corpo, ma l’animo pecca e che dove manca il consenso non esiste colpa. “Voi”, ella disse, “vedrete quale pena a lui si convenga; io, benché mi senta assolta dal peccato, non mi libero dalla pena. Nessuna donna vivrà impudica dopo l’esempio di Lucrezia”. E il pugnale, che teneva celato sotto la veste, immerge nel cuore e cade morente sulla ferita. Alte grida mandano il marito e il padre”.
Ai giorni nostri, è ancora possibile replicare la cacciata del Re e rinnovare il giuramento pronunciato dai nostri antenati. Sicuramente, a breve, sarà possibile scacciare il re di Carnevale, simbolo del caos e del vecchio, per propiziare il risveglio della primavera e sintonizzarci con le sue forze. Ma è anche possibile ripudiare (dentro di noi e nel mondo circostante) le peggiori qualità impersonate dal Re Tarquinio e dai suoi discendenti, in primo luogo la superbia e la violenza utilizzate per sopraffare la virtù. Ma le nostre tradizioni ci narrano, attraverso il mito, anche della possibilità inversa, ovvero del ritorno del Re, inteso come il ristabilimento dell’ordine naturale. Ad esempio, l’epopea di Ulisse che torna ad Itaca, dopo aver combattuto nell’assedio di Troia per dieci anni, e non prima di aver viaggiato per altri dieci anni, aver superato prove straordinarie e conosciuto mondi fantastici. Infine, rientrato nella sua isola, deve sconfiggere i famigerati proci, principi pretendenti alla mano della regina Penelope, che ambivano a succedergli nel regno. Meravigliosa anche la saga del Re Artù, guidato dal sapiente mago Merlino, che estrae la spada infissa nella roccia, e, con l’aiuto dei cavalieri della tavola rotonda, conquista il regno di Camelot. Infine, il tentativo operato dai grandi avatara storici, imperatori che, nei secoli, sfidarono il ciclo della decadenza e ristabilirono, seppur per periodi limitati, l’aurea aetas.
Tutti questi miti, storici e metastorici, indicano comunque una direzione ben definita: il tentativo va operato, attraverso la sintesi della via dello spirito e dell’azione. Chi rinuncia, gli ignavi che si mantengono lontani dalle contese, sia per per viltà o indifferenza, non fanno parte delle schiere di coloro destinati a scrivere la storia. Solamente agli altri, ai guerrieri che intraprendono il cammino e la battaglia, è riservata la possibilità di rinnovare il giuramento eterno contro i tiranni: «Su questo sangue, purissimo prima che il principe Sesto Tarquinio lo contaminasse, giuro e vi chiamo testimoni, o Dei, che da ora in poi perseguiterò Lucio Tarquinio il Superbo e la sua scellerata moglie, insieme a tutta la sua stirpe, col ferro e con il fuoco e ogni mezzo mi sarà possibile, che non lascerò che né loro, né alcun altro possano regnare a Roma. » (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 59.)
Marzio Boni