Roma, 11 gen – Tutti morimmo a stento. Una vita, quel poco tempo che abbiamo per conoscere, conoscerci ma soprattutto per farci ricordare. Proprio questo fu il cruccio giovanile di Fabrizio De André, morto l’11 gennaio 1999, che (come racconta il suo amico di sempre Paolo villaggio) vagava nei locali della sua Genova, affetto da una frenetica claustrofobia casalinga, per cercare l’occasione che l’avrebbe consacrato tra i più grandi cantautori italiani dello scorso secolo. L’occasione arrivò e tutti noi conosciamo il percorso poetico e musicale di Faber: costruito sulla critica della vita piccolo borghese degli anni 60 arrivando fino alla rilettura in chiave profana della figura di Gesù Cristo. Spogliando il re e togliendo i miracoli, le stelle comete e la resurrezione rimane infatti l’uomo, il figlio illegittimo. Il nazareno che diventa così il proletario.
Questo è il talento di Fabrizio De André, pessimista “congenito” come amava definirsi lui stesso. Aveva tanto da raccontare ed il terrore di non averne il tempo: infatti il tema della morte ricorre spesso nei suoi album, da “Inverno” scritta per il suicida Luigi Tenco al soldato Piero immerso in una guerra non abbastanza “sua”, passando dalla fine terrena degli umili (degli straccioni) ne “La ballata degli impiccati” ed in “Recitativo” con la supplica ad un giudice da parte di quei fuorilegge che avevano, però, gli occhi troppo belli. La morte per de André è sempre stata una sirena e come Ulisse, legato alla barca della vita, l’ha studiata proiettandola oltre, cucendola addosso ai suoi mille personaggi e cercando forse così di esorcizzarla. Un continuo passeggiare con il poeta Edgar Lee Masters per un cimitero immaginario: leggendo ad uno ad uno gli epitaffi degli altri, di gente comune…in una dimensione in cui comune non è mai sinonimo di banale. Questo era Fabrizio de André. Un uomo ossessionato dal tempo che scorre, un uomo che considerava le sue canzoni come vecchie fotografie, un uomo che non si è mai riconosciuto in una religione o in un partito, un vero individualista…anarchico, chissà.
Proprio per questo l’opera di Faber o si odia o si ama ed il meschino tentativo di incastrarlo in schemi mentali e politici, da lui sempre rifiutati, al solo fine di rinchiuderlo nel contenitore di una sinistra radical chic che da sempre ne ha voluto fare un suo feticcio culturale, appare quantomeno patetico. A questo riguardo non risulta ardito un parallelismo con il poeta statunitense Pound: svuotato di ogni contenuto dalle sentinelle del revisionismo poetico per renderlo più “potabile” e innocuo, tramite un processo di vera e propria “castrazione” intellettuale. Come dei preti laici, questi lestofanti del pensiero unico tentano invano di imporre un estrema unzione in salsa buonista ai grandi artisti dopo il loro trapasso, e quando questi non sono più qui a poter difendere la loro genuinità ontologica c’è sempre più bisogno di persone scevre da ogni pregiudizio, che siano pronte a liberare questo patrimonio unico dalle catene di una società ogni giorno più addomesticata alle regole dei beneducati dello spirito.
Diego Gaglini
1 commento
Volevo far presente che la canzone scritta per Luigi Tenco non e’ INVERNO bensi PREGHIERA IN GENNAIO
Grazie