Damasco, 27 dic – Quando l’esercito iracheno, le milizie sciite e i peshmerga curdi, con la regia e il pesante supporto dell’esercito statunitense, sparavano i primi colpi della battaglia per cacciare l’Isis da Mosul, ormai due mesi e mezzo fa, pochissimi pensavano a un blitzkrieg. Per lo stile di combattimento delle bande di miliziani che rispondono al “Califfo” Al Baghdadi, la guerra urbana, per giunta in una grande città che in due anni hanno potuto attrezzare alla bisogna, è forse il migliore scenario bellico immaginabile. Tuttavia, anche se non era stata dichiarata una tempistica precisa, la speranza era quella di chiudere la partita entro Natale, se non altro per regalare a Obama almeno un successo in politica estera, visto che in otto anni non ne ha azzeccata una, prima della sua uscita dalla Casa Bianca. La prospettiva di una rapida caduta di Mosul aveva spinto lo Stato Maggiore siriano ad accelerare le operazioni per la riconquista dell’intera città di Aleppo, per ovvie ragioni strategiche e propagandistiche.
La verità (per quanto riguarda Mosul, perché invece Aleppo è stata liberata davvero) è molto più amara, ed è stato il comandante delle forze USA in Iraq, Stephen Townsend, a certificare – in modo diplomatico, naturalmente – il fallimento della prima fase dell’attacco. Dopo un iniziale scontato avanzamento delle truppe curde e irachene, la forza propulsiva si è fermata ai quartieri orientali della città. In alcuni quartieri, l’Isis è stato addirittura in grado di mettere a segno delle controffensive che hanno costretto gli attaccanti a rinculare. E la linea del fronte è ancora ben lontana dal fiume Tigri, a ovest del quale si trova la città vecchia, il dedalo di stradine che sarà la parte più difficile da conquistare. Il generale Townsend ha quindi corretto le stime di qualche mese fa, affermando che l’avanzata è stata più lenta del previsto e dichiarando che la lotta all’Isis durerà per almeno un altro biennio. Ha anche fatto capire che in questo momento i soldati hanno bisogno di riposo e che pertanto l’offensiva per Mosul è di fatto ferma. Per ironia della sorte, ha invece lodato il comportamento e la disciplina delle milizie sciite, da parte delle quali si temevano eccessi e violenze sulla popolazione sunnita dell’Iraq settentrionale e che invece hanno dato prova di compostezza. E che, soprattutto, sono gli unici reparti ad aver raggiunto l’obiettivo prefisso, tagliando, all’altezza di Tal Afar, le linee di comunicazione fra i miliziani dell’Isis che difendono Mosul da quelli che combattono in Siria.
In linea generale sarebbe a questo punto sciocco continuare a sottovalutare militarmente l’Isis, che si sta dimostrando capace di reggere quella che assomiglia sempre più a una guerra totale, su diversi fronti. Di Mosul si è detto, ma ad Al Bab le cose non vanno meglio per il Free Syrian Army, ormai attivamente affiancato dall’esercito turco, che non riesce a sfondare le linee difensive della cittadina nel nord della Siria, subendo anzi sanguinosi contrattacchi. Per non dire di Palmira, caduta nuovamente in mano all’Isis dopo una serie di assalti durati tre giorni, che hanno costretto le forze armate siriane a ripiegare frettolosamente verso ovest. E in queste stesse settimane lo Stato Islamico sta anche fronteggiando il tentativo curdo di sfondamento da nord, verso Tabqa e Raqqa, mentre seguita ad assediare le forze di Damasco nella città sudorientale di Deir Ezzor. E’ più di quanto ci si potesse aspettare da quelli che sono stati definiti una banda di tagliagole ma che evidentemente hanno saputo mettere a frutto l’esperienza bellica accumulata in questi anni, i generosi finanziamenti delle monarchie del Golfo e il costante flusso di reclute provenienti da ogni angolo del mondo islamico.
Certo, il fatto che si oppongano a nemici che a loro volta combattono fra di loro agevola in un certo senso l’Isis, di cui peraltro si ignora totalmente il numero degli effettivi (a fine agosto il Guardian aveva citato una fonte del Pentagono che faceva riferimento a circa 15-20.000 uomini, ma secondo altre stime potrebbero essere quattro volte più numerosi), ma il fatto che tengano testa contemporaneamente agli eserciti turco, siriano e iracheno, alle milizie curde e alle forze aeree di Russia e Stati Uniti non può e non deve essere trascurato.
Dove e quando crolleranno le difese dell’Isis non è facile a dirsi. Né se l’apertura di una falla porterà alla caduta di tutto il sistema pseudo-statale creato da Al Baghdadi. Si potrebbe però azzardare un’ipotesi, ossia che l’Isis continuerà ad avere una sua funzione, e quindi non verrà sconfitto, fino a quando tutte le altre parti in causa non avranno deciso come ridisegnare la carta geografica del Medio Oriente. Fino a quando i rapporti di forza non si saranno nuovamente stabilizzati. E non si stabilizzeranno fino a quando non sarà chiara la posizione della nuova amministrazione statunitense nei confronti di Russia, Turchia, Iran e Arabia Saudita. Solo a quel punto, e solo a condizione che Trump e i suoi si muova in una prospettiva di realpolitik, si potrà iniziare a mettere ordine, e a ricostruire, sulle macerie della Siria e dell’Iraq.
Mattia Pase
1 commento
L’Esercito turco è un esercito NATO, e un esercito NATO, col totale dominio dell’aria, è stato respinto da una città assediata. A me francamente questo fatto inquieta non poco: non sarà che, nella fregola di far scoppiare il caos tra l’Anbar e la provincia di Raqqa, gli sponsor dell’ISIS abbiano costruito un esercito più forte di quelli NATO e in grado di mangiarsi anche i Saud e gli Hashemiti? Non è una gran bella cosa.