Roma, 5 feb – In oltre un secolo di storia e fino al 1981 la spesa in disavanzo dello Stato italiano è stata monetizzata direttamente o indirettamente dalla banca centrale, permettendo così di ottenere un immenso risparmio sugli interessi che ogni anno dobbiamo versare ai detentori dei titoli del debito pubblico Per quanto ora come ora la cosa ci sembri quantomeno strana, avendo introiettato il dogma neoliberista dell’indipendenza della banca centrale dal governo, è così che dovrebbe funzionare (e che in realtà funziona per esempio nell’est Asia) per un motivo banale: lo Stato deve essere sempre in disavanzo, così se per coprire il medesimo il governo deve indebitarsi con le banche commerciali emettendo obbligazioni, il risultato sarà di alimentare il debito pubblico fino a farlo diventare insostenibile per l’economia reale. L’affermazione precedente può sembrare azzardata nell’epoca del pareggio di bilancio in costituzione, ma solo fino a che non si capisce bene come funziona un’economia monetaria di produzione come la nostra, in cui sono le banche a creare moneta per mezzo del credito. Augusto Graziani, recentemente scomparso, spiegava forse meglio di tutti come funziona il cosiddetto “Circuito monetario”, che parte quando le banche concedono prestiti alle imprese. Con questi soldi le imprese possono assumere prestatori d’opera oppure acquistare beni d’investimento. In questo secondo caso, comunque, i soldi rimangono all’interno del sistema manifatturiero nazionale, quindi si può assumere che prima o poi l’intero capitale generato dalle banche vada nei salari dei prestatori d’opera. Le imprese quindi produrranno beni di consumo, fissandone il prezzo ai livelli necessari per essere in equilibrio finanziario, ovvero a rimborsare capitale ed interessi (che, come si noterà, non esistono ancora in circolazione, perché le banche non li hanno creati). Questo vuol dire che se i salariati spendono per intero la propria busta paga e se le banche spendono per intero i loro utili netti, le imprese non possono che trovarsi in equilibrio finanziario, ma ovviamente questa è una situazione del tutto irreale ed astratta. E’ così del tutto fisiologico che in una economia monetaria di produzione si formi un “buco” della domanda (in gergo “output gap”) che se non viene in qualche misura compensato iniettando domanda nell’economia reale in qualche altro modo, porta le imprese a ridurre l’occupazione per adeguare l’offerta alla domanda calante, con effetti recessivi sul Pil. Ovviamente, questo “buco” è tanto più grande quanto maggiore è la sperequazione sociale della ricchezza, in quanto ovviamente i più ricchi sono quelli che risparmiano di più comprando asset finanziari o immobiliari, ma la questione redistributiva non attiene all’oggetto di questo articolo. In pratica, per coprire questo “buco”, si potrebbe per esempio ottenere un surplus commerciale, ma è abbastanza ovvio che non è possibile che tutte le nazioni possano esportare più di quello che importano. È questo il motivo per cui è buona norma che lo Stato spenda più di quello che incassa con il proprio sistema tributario, in modo da immettere nell’economia reale quella liquidità aggiuntiva che manca per permettere alle imprese di assumere e raggiungere così la piena occupazione. Non bisogna preoccuparsi eccessivamente dell’inflazione, in quanto i prezzi dipendono in larga misura dai costi che le imprese devono sostenere: lavoro, energia, interessi, tasse, fornitori. Può però capitare che l’incremento continuo di domanda aggregata attuato dal governo spendendo in disavanzo comporti effettivamente una pressione al rialzo sui prezzi al consumo, e questo capita quando l’offerta non può adeguarsi velocemente all’aumentata domanda, oppure in situazioni caratterizzate dalla piena occupazione della manodopera e/o dal pieno impiego dei fattori produttivi. Per questo, sarebbe buona norma che il governo utilizzasse la spesa in disavanzo dello Stato per finanziare quegli investimenti pubblici in infrastrutture e capitale fisico necessari per incrementare nel lungo periodo la produttività del lavoro, per unità di capitale e per chilometro quadrato. In pratica, è il lavoro dell’uomo che consente alla moneta di acquisire il proprio valore ed è solo una politica rivolta al futuro, al miglioramento della produttività di chi non è ancora nato a costituire l’opportunità per la realizzazione del significato della vita per chi lavora e produce attualmente. Tutto questo però richiede una banca centrale di Stato subordinata al governo nazionale che consenta al medesimo di attuare le proprie strategie di lungo periodo senza essere strangolato dagli interessi sul debito pubblico e quindi esposto ai rischi speculativi internazionali. Occorre inoltre che il sistema finanziario nazionale funzioni nel modo sopra descritto, prestando alle imprese e non (come invece e sistematicamente capitato nell’ultimo trentennio a seguito della controrivoluzione neoliberista) ad attività improduttive o addirittura speculative, creando delle bolle finanziarie e immobiliari il cui scoppio costringe il governo ad incrementare immensamente il disavanzo pubblico per contrastare l’avvitamento recessivo dell’economia reale. Ciò che deve essere chiaro è che il dogma dell’indipendenza della banca centrale dal Governo è deleterio ed è il vero motivo che ha portato all’accumulo del debito pubblico italiano a partire dal 1981, anno del celebre “Divorzio Tesoro-Banca d’Iitalia” deciso da Andreatta e Ciampi per sottrarre alla politica il controllo della moneta. Le ragioni alla base della più sciagurata decisione della nostra storia dovrebbero far riflettere tutti quelli che dell’antipolitica e dell’ossessione per i costi dei rappresentanti hanno fatto la loro bandiera.
Matteo Rovatti