Roma, 25 nov – Sarebbe bello, oggi che è la Giornata mondiale contro le violenze sulle donne, accantonare ogni accento polemico e, per una volta, accodarsi al coro unanime. E non ci sarebbero problemi a farlo se, per esempio, in questa giornata si trattasse di riflettere su quanto sia verme il ragazzo che ha pedinato, speronato e dato fuoco alla sua ex, qualche tempo fa, a Roma. Sono fatti, questi, che non ammettono distinguo o sfumature. Peccato, però, che non è affatto di questo che si parla.
Sembrerà assurdo, e lo è, ma nella Giornata della violenza sulle donne non si parla della violenza sulle donne. Si parla di altro. Si parla di un progetto ideologico per rimodellare in senso politicamente corretto le strutture portanti della società. Il neologismo del “femminicidio” serve esattamente a questo. Non si tratta di condannare una violenza vile e ignobile, l’obbiettivo è molto più ampio. Del resto i numeri, di per sé, non darebbero ragione a chi parla di una “emergenza” in tal senso, anche se, ovviamente, di per sé anche una sola donna uccisa è di troppo. Ma l’idea che ci sia una “tendenza” generale verso questa violenza non sembra confermata dai fatti. Persino una pasdaran del femminismo, come la scrittrice Michela Murgia, è stata costretta ad ammettere, sul supplemento del Manifesto dedicato a questo tema, che “in Italia, le vite perse per questa ragione riguardano un numero di donne che oscilla approssimativamente tra 100 e 130 all’anno, che sul piano strettamente umano sono tutte di troppo, ma rappresentano un fenomeno limitato dal punto di vista statistico […]Il numero di morte per femminicidio è infatti 40 volte più basso persino della soglia necessaria per definire una qualunque malattia rara”. E allora come fare a tenere in piedi la storia dell’emergenza femminicidio a fronte di dati di questo tipo? Semplice: si amplia la categoria a dismisura.
Barbara Spinelli (avvocatessa, solo omonima della parlamentare di Tsipras) ha scritto: “Non stiamo parlando soltanto degli omicidi di donne commessi da parte di partner o ex partner […]. Se vogliamo tornare indietro nel tempo, stiamo parlando anche di tutte le donne accusate di stregoneria e bruciate sul rogo”. E così, a questo punto, l’intera storia dell’umanità diviene il mero scenario di sfondo di una grande storia del femminicidio. La già citata Michela Murgia è andata oltre: “Vanno intese per femminicidio anche le morti civili, cioè tutte le negazioni di dignità e tutte le violenze fisiche, psichiche e morali rivolte alle singole donne in quanto tali e alle donne tutte nella loro appartenenza di genere. È senza dubbio definibile femminicidio la morte professionale delle donne attraverso la negazione della parità di salario e di prospettive di crescita […]. È femminicidio l’assenza di una prospettiva di genere nelle pratiche mediche […]. È femminicidio la quantità di rinunce lavorative legate alla gravidanza e alla nascita dei figli […]. Per estensione è femminicida anche uno Stato che non agisce per la rimozione degli ostacoli alla piena realizzazione delle donne […]. È femminicidio anche il giudizio estetico e morale costante sui corpi e sulle scelte delle donne”. Come siamo passati dagli omicidi ai “giudizi estetici”?
E che senso ha creare un neologismo sul calco del termine “omicidio” per poi farvi ricadere dentro tutto ciò che non riguarda neanche lontanamente l’assassinio, anche in via indiretta? Il senso è quello di dar vita, partendo da terribili casi di cronaca, a un processo ideologico al maschio, al padre, all’eterosessualità stessa. Non ci credete? Nel medesimo supplemento al Manifesto già citato, Federico Zappino lancia la “lotta per la costruzione di un mondo in cui l’eterosessualità non costituisca più l’apice di nessuna gerarchia”, in quanto i femminicidi deriverebbero dal fatto che “il nostro linguaggio, il nostro inconscio culturale grondano di significanti che costantemente e performativamente riproducono l’eterosessualità”. In un video presentato con il titolo eloquente “Alle radici del femminicidio” e ospitato tempo fa sul sito della rivista Internazionale, Caterina Romeo, docente di studi di genere alla Sapienza di Roma, si è espressa così: “Il termine indica un’uccisione diretta o provocata, eliminazione fisica o annientamento morale della donna e del suo ruolo sociale, che vuol dire quindi non soltanto l’uccisione di una donna in quanto donna, e in quanto donna in una determinata relazione, ma l’annientamento del suo ruolo sociale. Per quello dico che il femminicidio è un prodotto della nostra società, è il prodotto di un contesto culturale. L’Italia, il contesto italiano è sicuramente una società eteropatriarcale, fondata strutturalmente sulla eterosessualità obbligatoria, quella che si chiama eternormatività, il fatto che l’eterosessualità costituisce la norma, e sulla legge del padre”. Il femminicidio deriverebbe dal fatto che “l’eterosessualità costituisce la norma”.
Vaglielo a spiegare che in ogni società umana l’eterosessualità costituisce davvero la norma: statistica, biologica, antropologica. Ecco, oggi si celebra questa cosa qui. È questa l’ideologia sottesa alle celebrazioni odierne. Ed è per questo che, senza pur cedere a qualsiasi misoginia d’accatto o giustificazionismo ipocrita, senza diminuire neanche di un grammo la nostra avversione verso la violenza sulle donne, anche oggi noi non ci stiamo, non ci accodiamo, non ci omologhiamo.
Adriano Scianca
3 comments
Ottimo pezzo.
Ricordo un servizio sulle reti Rai nel quale veniva raccontata l’evoluzione femminile in un piccolo villaggio africano, dove l’avvento di una multinazionale aveva permesso alle donne di lavorare ed avere un salario. Questo, a dire dell’autrice del servizio, aveva elevato la donna del villaggio da essere umano totalmente succube del marito a donna libera ed evoluta. In pratica da schiava a donna “in carriera”, senza che alla giornalista venisse in mente di dirci che con l’arrivo della multinazionale il marito poteva ancor meglio sfruttare la moglie, facendosi addirittura mantenere.
Il fenomeno artificiale imposto del “femminicidio” costituisce certamente un attacco portato al maschio, ma anche alla stessa donna, considerata sempre di più quale essere umano inferiore e per questo da difendere.
E’ poi uno di quei problemi che riguardano lo stretto privato degli individui e che per questo sta avendo così tanta risonanza sui media.
Un ottimo Scianca come spesso abbiamo la fortuna di poter leggere
Ottimo articolo. Finalmente un po di pensiero libero non radical chic. Grazie.