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Pro o contro la Germania: e se la soluzione fosse stare con…l’Italia?

by La Redazione
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merkel-germania-23Roma, 21 nov – Non sarà sfuggito che nell’ultimo anno, ovvero da quando il premier non eletto si è messo a giocare al patriota a corrente alternata nei confronti della Ue, il messaggio che i media mandano rispetto alla tenuta dell’Eurozona, e quindi alla Germania che su essa campa, è profondamente mutato. Per decenni il frame è stato di stampo auto-razzista: gli Italiani corrotti e fancazzisti dovevano imitare i tedeschi efficienti che non avevano paura a “fare le riforme”, e che votavano responsabilmente una “Mutti” asessuata invece che un satiro gaudente e spensierato. Oggi la musica è cambiata: la colpa di tutti i nostri mali dipende dall’egoismo teutonico, che con il suo rigore disumano favorisce l’avvento dei populismi.

Siamo di fronte ad una svolta storica per i popoli europei, ed il rischio concreto, a cui di fatto stanno già lavorando le élite mediatiche, accademiche, politiche è quello di far passare l’inevitabile dissoluzione dell’Eurozona come una responsabilità tedesca, di poco inferiore alla seconda guerra mondiale. Parliamoci chiaro: i Tedeschi, senza eccezione alcuna, ci odiano come italiani e sono intimamente convinti che ci meritiamo tutto il male che ci viene, esattamente come detestano i Greci o sostanzialmente chiunque altro non sia un algido cyborg allevato a senso di colpa storico e luteranesimo anti-romano. Ma se ci limitiamo a questa analisi superficiale, rischieremmo di dimenticare il punto fondamentale che riguarda il progetto d’integrazione europea, e cioè il suo essere un programma americano di graduale erosione delle sovranità nazionali degli Stati cosiddetti “alleati”. Non è da dimenticare, a questo proposito, il fatto che dopo la riunificazione al popolo della Germania non fu concesso nemmeno un referendum consultivo per esprimersi su Maastricht e dintorni. Solo il senso di colpa per le ben note vicende novecentesche poté indurre i tedeschi a rinunciare al Marco, sotto la guida di una classe dirigente non solo corrottissima (iniziamo a vederlo solo ora), ma visceralmente europeista e legata a doppio filo al sistema finanziario transatlantico.

Le prime vittime dell’euro sono stati in effetti i lavoratori di Berlino e dintorni in quanto, a partire dalle famigerate riforme del lavoro Hartz del governo socialdemocratico di Schroeder, sono state adottate rigide politiche mercantiliste per ottenere surplus commerciali nei confronti delle economie meno competitive che avevano perso la difesa della fluttuazione del cambio per difendersi. Se queste riforme fossero state approvate in un regime di cambi flessibili, l’effetto sarebbe stato semplicemente quello di una pesante rivalutazione del marco, che avrebbe danneggiato pesantemente l’export alemanno. In estrema sintesi, ogni economia mercantilista (Germania, Cina e Giappone), al di là degli strumenti utilizzati in concreto, si caratterizza per una crescita dei salari che viene mantenuta artificialmente bassa rispetto a quella della produttività. Lo Stato sociale, in questo contesto, ha l’unico scopo di sostenere un sistema iniquo in prima istanza per i lavoratori tedeschi, come una sorta di stampella e ammortizzatore dei disastri sociali prodotti dal mercato. Di qui gli sforamenti tedeschi dei trattati europei per finanziare dei cuscinetti sociali che rendessero accettabile persino l’Agenda 2010, cioè la precarizzazione selvaggia del lavoro attraverso gli ormai noti mini-jobs. Possiamo vederla in un altro modo: il “virtuoso” modello della tanto decantata Germania consiste semplicemente nel sacrificare la domanda interna (tramite il ristagno della quota salari sul Pil ed il conseguente prosciugamento degli investimenti privati) per rincorrere quella estera, consentendo così alle grandi imprese esportatrici di portare in Germania centinaia di miliardi all’anno di surplus commerciali.

È lecito supporre che la classe dirigente tedesca abbia accettato di rinunciare alla sovranità nazionale e contribuire alla nascita della Ue in cambio di una sostanziosa contropartita per le grandi imprese esportatrici, che detta classe dirigente di fatto esprimono e finanziano lautamente. L’Euro è in quest’ottica il “contentino” creato per impedire la rivalutazione del Marco e quindi dare libero sfogo all’osceno mercantilismo razzista che in un modo o nell’altro ha sempre e comunque covato nell’animo dei nipotini di Bismarck. Questo, nonostante di fatto il prezzo da pagare sia il progressivo impoverimento di un ampio strato della popolazione lavorativa, ad eccezione in realtà di quei lavoratori super-tutelati delle grandi e grandissime imprese che godono addirittura della Mitbestimmung, ovvero la cogestione da parte del capitale da un lato e dei prestatori d’opera dall’altro.

Allargare la prospettiva storica e geografica sulla natura dell’Unione Europea ci permette di relativizzare la dannosissima politica tedesca, inserendola nel suo contesto geopolitico. Il Fmi ha attaccato direttamente l’austerità tedesca la quale sta di fatto danneggiando anche gli Usa, e come cagnolini ubbidienti i media ed i politicanti italiani si adeguano alla “voce del padrone”. Possiamo trarre una parziale conclusione: se è vero che i tedeschi sono culturalmente portati a detestare i latini, è pur vero che dobbiamo guardare con compatimento questa loro tendenza che li porta a non accorgersi di essere le prime vittime di un sistema che essi stessi in generale considerano (seppur per motivi pretestuosi) fallimentare. Per questo, se è da rigettare la teutomania lisergica di veruni intellettuali destrorsi, è altresì sbagliato adagiarsi sulla teutofobia degli intellettuali sinistrorsi, in quanto oltretutto foriera di un pericolosissimo equivoco: la colpa della Germania sarebbe quella di non aver rinunciato abbastanza alla propria sovranità nazionale. Riusciamo a vedere quale è il pericolo folle di questo discorso? Riusciamo a capire che si attacca l’egoismo tedesco per giustificare l’annichilimento politico italiano? Riusciremo, per una volta almeno, a stare dalla parte giusta, che è semplicemente la nostra?

Matteo Rovatti

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