Budapest, 23 ott – Correva l’anno 1956 quando nella capitale magiara scoppiava la rivolta ungherese. A Budapest sessanta anni or sono verso le quindici del pomeriggio iniziava una grande manifestazione di protesta. All’inizio c’erano giovani universitari, intellettuali, ed ex detenuti politici. Nel giro di poche ore si unirono alla marcia numerosi cittadini. Col crescere del numero dei manifestanti cambiavano anche gli slogan. Se si era partiti in nome della difesa della libertà d’espressione e di parola. Man mano che la gente comune si univa al corteo i cori patriottici e antisovietici avevano la meglio. Le bandiere nazionali prive dello stemma comunista erano sempre più numerose. La protesta poteva concludersi come tante altre: ossia tutti a casa dopo l’ora d’aria. Le cose però non andarono cosi. La folla ormai composta da più di cinquantamila persone aveva deciso di continuare la marcia fin sotto al Parlamento. Ormai il dado era tratto. La protesta sfuggiva di mano agli stessi organizzatori. Gli appelli alla calma dei comunisti-moderati restano inascoltati. A sera, il Parlamento era sotto assedio. Duecentomila persone si scagliavano contro il comunismo e l’Unione Sovietica.
A questo punto è necessario fermarsi un attimo per ricostruire il contesto in cui si stava svolgendo la rivolta di Budapest. Il 25 febbraio 1956 ha luogo a Mosca il XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Nikita Chruščёv denuncia il “culto della personalità” di Stalin e le sue “violazioni della legalità socialista”. Inizia la destalinizzazione. Questo è almeno quello che pensano alcuni esponenti delle classi dirigenti del Blocco Sovietico. In Ungheria, in particolare, c’è una grande voglia di riformare il bolscevismo dall’interno. Ed è qui che è nato un grande equivoco: la rivolta ungherese fu il frutto delle elite comuniste che chiedevano un socialismo più democratico. I russi, dunque, non seppero comprendere la buona fede dei compagni ungheresi. E, invece, Mosca sapeva cosa voleva il popolo magiaro e per questo che ha deciso di attaccare i rivoltosi a testa bassa. La manifestazione del ventitré ottobre da questo punto di vista è emblematica. Certo, il primo nucleo dei manifestanti era costituito da universitari e intellettuali (riuniti nell’Unione degli scrittori magiari e nel Circolo Petőfi) che chiedevano libertà civili e politiche. La maggioranza del popolo magiaro, però, chiedeva ben altro. Quella manifestazione fu una miccia in un pagliaio. Anche secondo l’enciclopedia Treccani “l’istanza nazionalistica e antisovietica era prevalente”. Per non parlare poi dei settori urbani e rurali legati alla Chiesa. Il cui primate, il cardinale Mindszenty, era deciso avversario del regime. Per i progressisti di ieri e di oggi l’idea che il popolo possa scendere in piazza per difendere la propria sovranità nazionale è difficile da digerire. Ora che il contesto è più chiaro, torniamo a Budapest in quella sera del ventitré ottobre 1956.
Quando la tensione era ormai alle stelle il comunista moderato Imre Nagy (divenuto primo ministro nel 1953 per ordine di Mosca) provò a calmare gli animi. Nagy rivolgendosi ai rivoltosi disse: “Compagni” la folla lo fermò subito al grido: “Noi non siamo compagni, siamo ungheresi!”. Basterebbe questo episodio per smontare la tesi della rivolta ungherese come frutto di istanze libertarie. Non accontentiamoci di questo e torniamo al nostro racconto. Per tutta la notte a Budapest infuriarono i combattimenti. I militari passavano le armi ai rivoltosi. Gli insorti girano per la città per trasportare le munizioni e per coinvolgere nuovi volontari. Stranamente, non c’erano intellettuali revisionisti nelle strade della capitale magiara. C’era solo un popolo che non vedeva l’ora di impugnare le armi per cacciare gli invasori. L’abbattimento della statua di Stalin fu un altro simbolo di quell’insurrezione. I comunisti dal canto loro seppero giocare bene le loro carte. Vediamo come. Il ventiquattro ottobre, il moderato Nagy era nominato primo ministro; ma l’intransigente Gerő, che rimaneva segretario del partito, proclamò la legge marziale e fece appello alle truppe russe in Ungheria. Nagy cercava di salvare capre e cavoli ma a Mosca avevano già deciso che lui sarebbe stato solo un capro espiatorio. I russi cercavano di far sbollire la rivolta per dare l’affondo finale. Intanto, i patrioti magiari costituivano comitati rivoluzionari in tutto il paese, molti non aderirono al nuovo regime «democratico» di Nagy. Cosi come ha raccontato Marzio Pisani in suo articolo sul periodico l’Uomo libero: “Fin dall’inizio dell’insurrezione gli insorti costituirono proprie organizzazioni politico-militari come l’Organizzazione dei Giovani Combattenti Ungheresi e il Nuovo governo rivoluzionario e il Comitato di difesa nazionale, che erano indipendenti dai partiti democratici ricostituiti in fretta e furia. I diversi comitati rivoluzionari costrinsero Nagy alla cosiddetta «svolta a destra» con la loro costante pressione politica”. Per accontentare i nazionalisti in quei giorni Nagy, dopo aver spedito in esilio numerosi stalinisti, aboliva il sistema monopartitico e propose la fine della presenza del Patto di Varsavia in Ungheria. Il trenta ottobre la crisi di Suez dava a Mosca l’occasione di potersi organizzare per far sventolare il drappo rosso sul cielo di Budapest. L’occidente volgeva il proprio sguardo altrove. Quale migliore occasione per soffocare i rivoltosi ungheresi? Il quattro novembre, infatti, le truppe sovietiche occuparono Budapest con ben cinquemila carri armati. Il bilancio dei morti è difficile da ricostruire. Enzo Bettiza nel suo libro 1956 Budapest: i giorni della rivoluzione ha provato a fornire qualche cifra. Secondo Bettiza i feriti furono circa ventimila, più di mille giustiziati, e ventimila caduti negli scontri. Inoltre è bene ricordare che a seguito di quei fatti vi furono circa duecentomila esuli. Furono solo tredici interminabili giorni. Molti potrebbero pensare che quelle persone si sono sacrificate invano. In realtà non è così: il sangue versato per la patria da sempre buoni frutti. Oggi, infatti, gli ungheresi ricevono quello che hanno donato. L’Ungheria, guidata da Viktor Orban, è riuscita a liberarsi dal giogo mondialista senza bisogno di isolarsi. Ogni popolo, dunque, è padrone del proprio destino. Basta solo volerlo. È questa la preziosa eredità dei ragazzi del ‘56.
Salvatore Recupero