Siena, 22 ott – Se tanto mi dà tanto, considerando che è già la seconda volta che Renzi si esprime su Mps, vuol dire che siamo ormai al capolinea. Perché, com’è noto, il premier porta una sfiga micidiale. Ricordate quando, a febbraio, parlando proprio dello storico istituto senese, annunciava che la banca era risanata ed investirvi poteva essere un affare?
Ora ci risiamo. Perché Mps non è risanata, investirvi non è stato un affare e la situazione è, se possibile, ancora peggiorata. A Rocca Salimbeni, sede della banca, stanno lavorando alacremente per l’ennesimo (il terzo) aumento di capitale da almeno 1,5 miliardi, che visti i precedenti non è scontato sia risolutivo della crisi aziendale in atto. Renzi si dice sicuro del successo delle manovre: “Mps ha avuto uno straordinario passato e avrà uno straordinario futuro“, ha detto ieri, a margine del Consiglio Europeo di Bruxelles.
Peccato che il premier ometta di dire che in questo futuro si annidano fosche nubi che arrivano dall’estero. Oltre a soggetti nazionali come Unipol (e cioé le coop rosse che dettano l’agenda del Pd) si stanno infatti facendo strada, in questi giorni, anche numerosi fondi internazionali che attendono di accedere ai numeri del Monte subito dopo l’approvazione del piano industriale previsto a breve. Stando ad alcune indiscrezioni, fra di essi la parte del leone la farebbero i fondi sovrani del Golfo Persico insieme ad hedge fund anglosassoni. Si parla del fondo del Qatar, la Qatar Investmenent Authority, già nota alle cronache economiche europee per controllare il 17% di Volkswagen e la totalità della squadra di calcio del Paris Saint-Germain. Insieme a Doha sembra si stia muovendo anche il Kuwait, da tempo presente in Italia tramite un accordo di “co-investimento” con il Fondo strategico.
Nomi non da poco dato che, secondo il piano presentato da JpMorgan, Mps deve trovare, per garantire il successo dell’aumento (e della conversione delle obbligazioni), un “anchor investor“, vale a dire il soggetto attorno al quale far ruotare tutta l’operazione e che possa fungere da garante della stessa. Che, a questo punto, potrebbe davvero parlare la lingua del profeta. Forse quella di MontePaschi sarà ancora una storia dal 1472. Ma probabilmente non più italiana.
Filippo Burla