Roma, 10 ott – È davvero raro leggere testi come l’ultimo di Adriano Scianca, pubblicato per i tipi di Aga Editrice col titolo di L’identità sacra. Dèi, popoli e luoghi al tempo della Grande Sostituzione. Non è facile infatti trovare libri che alla solidità d’impianto e alla ricchezza argomentativa associno l’intento di affrontare in modo diametralmente opposto al pensiero dominante un tema tra i più esplosivi e dirimenti dell’oggi: quello immigratorio.
La ‘chiave’ interpretativa usata da Scianca è appunto quella di ‘grande sostituzione’, mutuata da Renaud Camus. Ma, ecco il primo punto decisivo, senza alcuna concessione al cospirazionismo. In altre parole, la ‘grande sostituzione’ non è affatto il frutto di un ‘piano’ scientemente programmato e realizzato da centrali e poteri ‘occulti’, quali che siano. Né tanto meno è un’altra versione del fantomatico ‘piano Kalergi’. Qui occorre essere assolutamente chiari: qualsiasi teoria cospirazionista è non solo fattualmente infondata ma anche controproducente, perché falsificabile senza alcuno sforzo e dunque chiaro indizio della pochezza argomentativa di chi la sostiene. Per cui, servendosi di categorie elaborate in altri contesti storiografici, si potrebbe dire che la ‘grande sostituzione’ non è l’esito di processi strettamente intenzionali quanto piuttosto la risultante di dinamiche funzionali, ognuna agente in maniera autonoma (disordine geopolitico, liberismo economico, problemi demografici, ideologia dei ‘diritti umani’, ecc.) ma tutte appunto funzionali alla dissoluzione dei popoli europei in una moltitudine di senza-storia.
Altro concetto fondamentale del libro è quello di ‘nesso di civiltà’, da intendere, per riprendere le stesse parole dell’autore, come “quel legame che indissolubilmente annoda i destini di una terra, un popolo e una presenza divina” (p. 105). Ma Scianca ha anche il merito d’individuare con chiarezza i nemici di tale ‘nesso di civiltà’: i teorici dello sradicamento, i ‘decostruttori’ di ogni senso d’identità, il capitalismo ‘nomade’, i corifei del vetero-internazionalismo marxista, le élites cosmopolite, e via dicendo, così come ha il merito di opporre a tutti loro obiezioni convincenti e fondate (ne voglio ricordare una: da un lato si ‘decostruisce’ ogni genealogia identitaria, dall’altro s’insiste sulle presunte origini africane dell’umanità, disegnando quindi scenari di lunghissima durata; in altre parole, si ‘decostruisce’ solo quello che non fa comodo agli odierni apologeti dell’invasione migratoria).
Eppure, un libro, per quanto ben argomentato, che non andasse al di là della pars destruens, della semplice critica all’alluvione migratoria in atto, sarebbe comunque un libro riuscito a metà. Non è però il caso del testo di Scianca, la cui intera ‘seconda parte’ è dedicata a una puntuale ricostruzione dell’identità sacra, ovvero alla riproposizione, non meramente nostalgica ma tutta proiettata verso il futuro (e qui si avverte la grande lezione di Giorgio Locchi), di un mondo in sé differenziato e plurale, refrattario a ogni indistinta uniformazione e a ogni dissolvente livellamento, sorvegliato da un rinnovato senso del sacro. Insomma, e per concludere queste assai sommarie e insufficienti notazioni, il testo di Scianca va letto, meditato e fatto fruttare. Perché, ed è l’ultimo dei suoi insegnamenti, nulla è già inevitabilmente deciso (contro ogni paralizzante ‘fantasia da kali yuga’): il destino è ancora nelle nostre mani, i dadi ancora rotolano…
Giovanni Damiano
1 commento
Può essere fatto un confronto interessante da fare tra questa recensione e questa conferenza: https://www.youtube.com/watch?v=6BJHLVP6aQk