Washington, 9 ott – Di qui a un mese, all’alba del nove novembre, gli Americani, e il resto del mondo, conosceranno il nome del successore di Barack Obama. Sulla lotta fra Hillary Clinton e Donald Trump il mondo si spreca in endorsement (a favore della prima) e critiche, che rasentano quasi sempre l’insulto (a danno del secondo). Ai sostenitori dell’ex first lady varrebbe la pena di ricordare l’esperienza italiana, quando Berlusconi è stato a lungo svillaneggiato dall’establishment intellettuale (se così si può dire, visto che include personaggi del calibro di Crozza, Benigni, e di qualche attore di fiction in cerca di visibilità) ma alla fine è rimasto in sella per quasi vent’anni. Ma in fondo sono affari loro. Forse. Quello che però latita, da quanto si può leggere, è un bilancio schietto della presidenza Obama. Otto anni in cui il primo presidente nero degli Stati Uniti ha brillato per sovraesposizione mediatica e inconsistenza politica. Ottimo comunicatore – sarebbe sciocco non riconoscergli questa dote – passerà alla Storia per un premio Nobel assegnato sulla fiducia e per la contestatissima riforma sanitaria, che ha bene o male garantito una qualche forma di tutela assicurativa a una fascia di popolazione che prima non ne godeva. Se il Nobel può essere serenamente catalogato come buffonata, di cui però Obama non ha alcuna responsabilità, la riforma, con tutti i suoi limiti, è stata comunque una scelta politica, e gli va dato atto.
Tolto questo, l’economia è andata benino, ma gli ultimi rallentamenti (le previsioni di crescita per il 2016 e il 2017 sono state recentemente ritoccate al ribasso), l’aumento della povertà, che secondo un recente rapporto del Fmi colpisce un cittadino americano su sette, e la sempre più grande disparità nella distribuzione del reddito, in un Paese che in queste classifiche è storicamente lontano anni luce dagli standard occidentali, gettano più di un’ombra sull’operato di un presidente che era stato presentato come il paladino dei ceti più poveri della popolazione. Cioè di una fetta rilevante del suo elettorato. Se il bilancio della politica economica di Obama è dunque in chiaroscuro, tende drammaticamente al rosso in altri campi, che sarebbero dovuti essere il cavallo di battaglia del presidente uscente. L’acuirsi degli scontri razziali, per quanto sia opportuno fare la tara fra la realtà e l’immagine che ci viene data dai media tradizionali, secondo i quali pare in atto un tirassegno dei poliziotti sugli americani di colore, è un sintomo grave della difficoltà di integrare i neri nel sistema sociale americano, nonostante questi siano cittadini a tutti gli effetti da un secolo e mezzo. E questo è un messaggio che alcuni ingenui immigrazionisti di casa nostra, convinti che la buona volontà sia sufficiente a sconfiggere ogni discriminazione, dovrebbero in qualche modo tenere in considerazione.
Ma peggio, molto peggio, ha fatto Obama in politica estera. Nella storia americana, è prassi consolidata che le presidenze repubblicane tendano a privilegiare un approccio isolazionista (o meglio, dedicato più al continente americano che al resto del mondo), e che le presidenze democratiche siano più propense a mettere il naso ad li là degli oceani. Democratici erano i presidenti che hanno voluto l’intervento statunitense nelle due guerre mondiali, democratici quelli che hanno condotto gli Stati Uniti nel pantano vietnamita, democratica era l’amministrazione che vent’anni fa ha deciso di mettere il naso nelle questioni balcaniche. Questo schema è stato rovesciato da Bush Junior, con le conseguenti disastrose operazioni militari in Afghanistan e Iraq (indimenticabile il discorso del Presidente, sotto lo striscione “Mission accomplished”, quando credeva di aver risolto tutti i problemi del Medio Oriente con la presa di Baghdad, nel 2003). E Obama, trovatosi costretto a porre fine a queste impopolarissime avventure, non ha mai capito granchè come si sarebbe dovuto muovere in quello scacchiere. Le primavere arabe sono state una autentica Caporetto a stelle e strisce – basti rileggere il balletto di dichiarazioni in occasione della caduta di Mubarak, o il suo tentennamento nella questione libica, quando si è lasciato rimorchiare dagli anglo-francesi, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Evidentemente Soros aveva perso il numero di telefono della Casa Bianca, o forse la linea era disturbata. Ma la “perla” della politica estera statunitense, in questi otto anni, è stata la guerra civile siriana, da cui Washington sta uscendo drammaticamente ridimensionata, a vantaggio della Russia – che nel 2008 era sostanzialmente ridotta al rango di potenza regionale, e che ora invece può permettersi di sfidare apertamente gli USA, senza che questi siano in grado di reagire – e dell’Iran, con cui Obama ha meritevolmente cercato e trovato un accordo, che però gli si è rivoltato contro, visto che ha permesso a Teheran di uscire dall’isolamento internazionale, e ha raffreddato i rapporti con gli alleati storici dell’area, ovvero Arabia Saudita, che per ripicca ha rafforzato i legami con la Gran Bretagna, e Turchia. E proprio la Turchia, che era l’arma più efficace di cui disponeva il Pentagono per condizionare l’esito della guerra in Siria, ha iniziato a muoversi in modo autonomo da Washington, complice anche il comportamento non troppo limpido dell’amministrazione USA in occasione del fallito golpe di luglio. In merito al coinvolgimento statunitense nelle vicende siriane si potrebbe peraltro scrivere un compendio su come uno statista non si deve comportare, che includerebbe il generoso finanziamento di gruppi di opposizione che il giorno dopo sono passati armi e bagagli (ma soprattutto armi) all’Isis, le roboanti dichiarazioni sull’imminente attacco a Damasco dopo il presunto uso di armi chimiche da parte del governo siriano, dichiarazioni che Obama si è rimangiato nell’arco di poche ore, l’assecondare i Russi nel definire dei periodi di tregua che facevano il gioco di Assad, e fornendo buone ragioni a quest’ultimo per riprendere la guerra non appena aveva avuto modo di ridispiegare i suoi. Per finire con il criminale attacco aereo alla guarnigione siriana che da anni difende Deir Ezzor. In questo caso, oltre che criminale, il comportamento è stato demenziale, visto che comunque non è riuscito a far cadere quel bastione, e ha fatto perdere ogni credibilità alla politica siriana di Washington.
Almeno in Europa, Barack Obama godeva di un credito pressochè illimitato, costruito soprattutto dai media, e rafforzato con il suo discorso di Berlino – che echeggiava vagamente il celeberrimo “Ich bin ein Berliner” di John Kennedy del 1963 – in cui cercava una sponda a una linea politica che peraltro nessuno ha mai capito. Ma proprio nelle ultime settimane del suo mandato, alla fine dell’estate, il Presidente ha dovuto incassare la più cocente sconfitta, con la rottura da parte europea del negoziato sul Ttip – l’accordo euroamericano per l’integrazione dei rispettivi mercati. Siccome la Storia spesso si diverte, la pietra tombale su questo accordo è stata messa proprio da quel governo tedesco che l’aveva ospitato tre anni prima all’ombra della Porta di Brandeburgo. E nella Storia, appena uscito dalla Casa Bianca, ci entrerà, il primo presidente nero degli Stati Uniti. Ma molto probabilmente ci entrerà suo malgrado.
Mattia Pase
3 comments
Negro cretino.
I sionisti saranno molto contenti di questo articolo visto che parla bene di Soros e dice che Assad è un criminale
Occhio americani a quello che fate a novembre 2020…ricordatevi bene di quel che ha fatto er banana