Roma, 26 set – Identità contro immigrazione: un confronto in cui è in gioco soltanto una dimensione politica e sociale oppure è possibile tirare in ballo anche un conflitto metafisico? Di questi argomenti parla il saggio L’Identità sacra di Adriano Scianca (Aga, Milano 2016, pp. 272, 18 €). Abbiamo intervistato l’autore per saperne di più.
Come nasce questo libro?
“L’Identità sacra” nasce interrogando, “socraticamente”, il fenomeno migratorio. Ci fa schifo, d’accordo, ma perché? Certo, c’è il degrado, la delinquenza, gli aspetti sociali. Ma se tutti questi problemi fossero risolti da un governo illuminato (non è possibile, ma ipotizziamo che lo sia), davvero l’immigrazione sarebbe apprezzabile? Ovviamente no. E allora cosa ci disturba tanto di essa, perché la sentiamo come una profanazione in sé? Perché è una sostituzione di popolo. Poi ho proseguito con le domande.
Tipo?
Beh, mi sono chiesto: “D’accordo, ma cosa ci disturba, allora, della Grande Sostituzione”? Non può essere un fenomeno naturale e persino virtuoso, come sembrano pensare i principali media occidentali? La mia risposta è stata che no, non può esserlo, è un progetto etnocida che va a violare i fondamenti del vivere umano, che io ho cercato di cogliere nella formula del “Nesso di Civiltà”: c’è un legame che unisce una terra, un popolo e una presenza divina. Non è casuale che un popolo abiti una certa terra anziché un’altra. C’è un senso. La Grande Sostituzione va a spezzare quel senso.
Nel tuo libro viene dato molta importanza al concetto di “confine” come tracciato che delimita uno spazio sacro e ritualmente ordinato e che contemporaneamente lo separa da ciò che non è ordinato, che è caos. Puoi spiegare meglio questo concetto?
Un altro concetto chiave che emerge nella parte centrale del libro è quello di “cosmopoiesi”: i popoli non si limitano a “stare” fisicamente su una terra, così come un corpo geometrico sta in uno spazio ideale. I popoli “abitano poeticamente” le terre, quindi hanno necessità di “fare ordine”, di investire di senso i territori. Da qui l’importanza del confine: il primo atto di chi mette ordine è la delimitazione. Roma aveva tutta una ritualità precisa legata all’atto di tracciare i confini, che si riflette nella sua fondazione e nei rimandi etico-sacrali ad essa connessi, ma ancora fino a pochi anni fa, prima dell’impazzimento generale, restava nel sentire comune una certa eco “laica” del fatto che attraversare un confine non è un atto neutro, un gesto arbitrario, ma l’entrata in uno spazio simbolicamente diverso.
Secondo te, la fanatizzazione del concetto di “no borders”, che quindi vuole abbattere il concetto di confine, si lega in qualche modo a ciò che Venner chiamò “metafisica dell’illimitato”, che contrasta tutto ciò che è definito e quindi anche tutto ciò che è Natura e tutto ciò che è Bellezza?
Io credo, e mi pare che anche Venner vi faccia riferimento, che la sensibilità europea sia tutta in questo concetto del limite ma anche nella tensione verso il suo superamento (la figura tipica è Odisseo, che cerca la patria, quindi la certezza, il rientro nei confini, ma che è sempre tentato dalla scoperta, dal nuovo, da ciò che è al di là dei limiti conosciuti). Una dialettica che si risolve virtuosamente, per esempio fondando nuove polis a partire dal fuoco sacro prelevato dalla madre patria, o ricreando gli altari alla Triade capitolina nelle nuove colonie romane. Poiché il centro è forte, la circonferenza si può espandere verso l’ignoto. L’idea di sopprimere semplicemente i confini e pensare un mondo che ne sia sprovvisto ha invece a che fare davvero con una metafisica diabolica ed etnocida. Una ideologia, letteralmente, sterminatrice, cioè azzeratrice del termine.
Negli ultimi capitoli dai molto spazio agli esempi della nostra cultura europea, citando spesso Atene, Sparta e soprattutto Roma…
L’eredità ancestrale indoeuropea (peccato non aver potuto inserire maggiori richiami anche al mondo celtico, germanico e slavo, ma è giusto anche partire dai riferimenti a noi più prossimi, e comunque quelli che hanno lasciato un segno più significativo) è opposto metafisico rispetto al mondo della Grande Sostituzione, il mondo dell’etnosostituibilità, il mondo sterminato e senza patrie. Vi si possono trovare, peraltro, sensibilità e possibilità differenti: vedi il ripiego su se stessi dei Greci, con il loro culto dell’autoctonia, che esprime una prospettiva diversa rispetto all’apertura al mondo tipica dei Romani. Apertura che – e cerco di sottolinearlo mostrando cosa significasse avere a che fare con il “diverso” a Roma – non va confusa con ideologie e derive tipicamente moderne. Chi fa dell’Impero un precursore dell’antirazzismo e della “accoglienza” mente sapendo di mentire…
Parli di Identità Sacra, quindi di metafisica dell’identità. Ma c’è anche una metafisica della Grande Sostituzione? L’immigrato in sé ha in qualche modo un valore simbolico per i promotori della Grande Sostituzione?
Più che l’immigrato, l’immagine che le élite culturali si fanno di esso. Non è sempre la stessa cosa. Anzi, non lo è quasi mai. L’intellighenzia occidentale è cresciuta con il marxismo, che aveva istituito un discorso messianico attorno al proletario. Cos’è il proletariato, per Marx? Una classe che è in realtà una non-classe, il contrario di tutte le classi. Questo perché non ha interessi particolaristici da far valere, ha solo la sua “sofferenza universale”, e quindi altrettanto universale sarà la libertà che esso porterà nel mondo. Ora, chi sono gli immigrati? Un popolo che non è un popolo, sono un anti-popolo che non ha un’identità sua, ha solo una “sofferenza universale” e grazie a essa potrà redimerci tutti. Redimerci da cosa? Ma è ovvio, dai peccati originali dell’identità, del radicamento, della storia, della fedeltà a un destino. Ricordiamo la Boldrini: il loro stile di vita presto sarà quello di tutti noi. Non dobbiamo integrarli nei nostri valori, sono loro che devono integrare noi nel loro nulla. È questa metafisica del nulla che sorregge e anima segretamente i complici dell’etnocidio.
a cura di Carlomanno Adinolfi