Roma, 4 set – Da due giorni nella città di Oristano si respira un’aria nuova. Il Tribunale di Roma, infatti, ha rimosso un macigno che pesava sul destino dell’antica Aristanis. Vediamo meglio di cosa si tratta. Il Comune di Oristano aveva stipulato, tra il 2005 e il 2006, due contratti derivati proposti dalla Banca Nazionale del Lavoro (ora Bnl Bnp Paribas). Ebbene il Tribunale di Roma ne ha dichiarato la nullità. Non è una notizia di poco conto, non solo per il comune sardo ma anche per tutto il nostro Paese. Partiamo da Oristano e facciamo un passo indietro per capire meglio la vicenda.
Nel 2005, l’amministrazione comunale aveva contratto una serie di debiti con la Cassa Depositi e Prestiti. E fin qui nulla di strano: si tratta di prassi ordinaria per i comuni quando affrontano spese straordinarie. La giunta del 2005, ritenendo troppo alti i tassi d’interesse di CdP, decise di affidarsi ai preziosi consigli della Banca Nazionale del Lavoro. L’Istituto di credito rifilò al comune un contratto di finanza derivata chiamato: “interest rate swap” con scadenza 2026. L’interest rate swap è una scommessa tra i due contraenti sull’andamento di una determinata speculazione, regolata dal mercato e dall’Euribor. Il termine “scommessa” non è una forzatura perché la finanza dei derivati si basa su meccanismi che ricordano il gioco d’azzardo. È come se il comune per reperire i fondi per l’asilo nido acquistasse una cinquantina di Gratta e Vinci. Se questo può sembrare poco cosa bisogna ricordare come all’interno di questo pactum sceleris vi fossero altre clausole capestro espressamente vietate dalla legge. Fuori dai tecnicismi: il Comune di Oristano non avrebbe guadagnato nulla da quest’operazione. La vittoria davanti al giudice, invece, si tradurrà in un risparmio per il Comune valutabile in circa tre milioni e mezzo di euro.
Come dicevamo la vicenda ha anche delle implicazioni nazionali. Infatti, anche nel Continente, ne vediamo delle belle. Secondo gli ultimi dati della Banca d’Italia il valore dei contratti derivati sottoscritti dai comuni italiani ammonta a circa nove miliardi di euro. Una bomba a orologeria nascosta soprattutto nella pancia dei bilanci delle grandi città. Inoltre, secondo l’ultima indagine conoscitiva della Corte dei Conti (giugno 2016) depositata alla commissione Finanze della Camera: “Le amministrazioni comunali si sono riempite di questi strumenti finanziari non solo per gestire virtuosamente i propri debiti, ma anche per ottenere incassi immediati che poi sono stati contabilizzati a bilancio tra le entrate, per avere in futuro delle corrispondenti uscite a carico delle successive amministrazioni”. I sindaci alimentavano le loro clientele sperperando il denaro pubblico, ma lasciavano il conto al loro successore. In questa logica bipolare (nel senso politico- psichiatrico del termine) gli unici beneficiari erano, e sono gli istituti di credito. Inoltre, i magistrati contabili hanno rilevato che in molti casi i contratti sottoscritti dai comuni non erano conformi alla normativa all’epoca vigente. Spesso, addirittura, gli uffici comunali preposti alla loro gestione sono risultati inadeguati e non mancano casi limite di derivati sottoscritti “in lingua inglese senza traduzioni in italiano”. Praticamente, firmavano assegni in bianco.
Come abbiamo visto, il caso di Oristano è solo la punta dell’iceberg. Dunque, ora che fare per evitare il ripetersi di storie di questo tipo? Aspettiamo l’intervento delle toghe, come è avvenuto ad Oristano? In questo caso, considerando i tempi della giustizia italiana, per annullare i contratti derivati dagli enti locali abbiamo bisogno di tre secoli. La strada giudiziaria è lunga e poco efficace. Questo lo capirebbe pure un bambino. Non è neanche sufficiente aver vietato agli enti locali di stipulare contratti derivati, come è successo nel 2009. Infatti, restano i vecchi debiti da saldare. Serve una strategia che cancelli gli errori e gli orrori del passato. Insomma, più che di un “giudice a Berlino” ci servirebbe uno statista a Roma.
Salvatore Recupero