- In occasione del quinto anniversario del tragico terremoto di Amatrice riproponiamo questo articolo di Sandro Consolato
- Roma, 27 ago — Che l’Italia sia tutta a rischio sismico è cosa nota. E che ad ogni terremoto, sia in Sicilia o sia in Friuli, sia lecito dire “l’Italia è stata colpita” è sentimento comune. Tuttavia, questo nuovo, terribile terremoto dell’Italia Centrale ha una valenza “italiana” più forte, un surplus simbolico per cui la sola Amatrice, la località più colpita, si fa figura retorica dell’Italia stessa, per l’esattezza quella figura che si chiama sineddoche, dove la parte è usata per indicare il tutto.
Amatrice appartiene alla provincia di Rieti. E Rieti, per fortuna non toccata direttamente dal sisma, è ab antiquo considerata l’“ombelico di Italia”. Il Reatino, secondo le più antiche tradizioni italiche registrate dai classici greci e latini (Dionigi di Alicarnasso, Macrobio) fu il punto di irradiazione delle “primavere sacre”, migrazioni di giovani guerrieri che a varie ondate popolarono gran parte dell’Italia peninsulare, lungo quella stessa dorsale appenninica che è il corpo stesso del Drago tellurico che periodicamente scuote le nostre terre (ne parlò sapientemente Alessandro Giuli sul “Foglio” dopo il terremoto aquilano). E’ questa, sono sempre i classici che così parlano, la terra degli “aborigeni”: in altre parole, se la stessa Penisola italica conobbe già in età antica, preromana, varie migrazioni provenienti da Oltralpe e dal mare, è nell’area tra Lazio, Umbria e Piceno che si concepì la “matrice” più arcaica della stirpe italica, destinata più avanti ad assorbire i nuovi arrivati compatibili e a respingere gli incompatibili, i meri invasori, come i Punici.
Amatrice, come nome di luogo, sembra non esistere prima del Medioevo. Ma è assai curioso che uno studioso locale, Cesare De Berardinis, editasse nel 1932 proprio ad Amatrice un’opera dal titolo MA-TRV che si apre col capitolo intitolato “Aborigeni”, dove già in prima pagina traccia quei nomi che oggi TUTTI gli Italiani hanno imparato a conoscere: Amatrice, Arquata del Tronto, Accumoli, Norcia… Il libro è di dubbia scientificità, molto giocato sulle cosiddette “false etimologie”. Eppure coglie, anche se in un estremismo localistico, la tradizione dei classici sul Reatino, e fa di Amatrice la “Matrix, l’alveo da cui discende la razza”. E non è forse un caso che qui, a Sant’Angelo di Amatrice, viva il più grande Cerro d’Italia (7 metri di circonferenza di tronco, 600 anni d’età), quasi eco naturale di quell’albero – da De Berardinis detto “albero della razza” – che si vede in uno dei due emblemi dell’antichissima famiglia amatriciana dei Novelli. Sempre tra i nomi antichi di famiglia del luogo vi è peraltro quello dei Vitelli, così che una tradizione amatriciana vorrebbe di qui pure la gente dell’imperatore Vitellio, gente che, secondo quanto narra Svetonio, discendeva “da Fauno, re degli Aborigeni, e da Vitella, adorata in molti luoghi come dea”. Ma Vitella adombra il nome stesso dell’Italia quale Viteliu, “terra dei vitelli”.
L’Italia – una Italia intera, con le sue isole, disegnata da un folto insieme di alberi piantati in epoca fascista – si può vedere come una grande macchia scura sul Piano grande di Castelluccio di Norcia, anch’esso colpito dal sisma, e con cui già si passa nella provincia di Ascoli Piceno, nella cui diocesi peraltro rientra anche Amatrice. Amatrice è infatti, pur se cittadina non grande, da sempre un importante crocevia tra Umbria, Marche, Lazio e Abruzzo. Sorge su un altopiano solcato dal Tronto, posto tra gli orientali monti della Laga e il settentrionale massiccio dei Sibillini; la via Salaria la lega alla valle reatina e a Roma stessa da un lato, ad Ascoli e all’Adriatico dall’altro. Se ne può quindi comprendere la focalità nelle antiche migrazioni italiche, quindi in quella ininterrotta azione pastorale della transumanza che è pure all’origine (lo si è molto ricordato in questi giorni) della “pasta all’amatriciana”. Da Amatrice, particolare importante, si va verso i monti della Sibilla. Siamo nel regno che esplorò in profondità Febo Allevi nella sua dotta opera Con Dante e la Sibilla ed altri (Milano 1965), mostrando come il mito della presenza della Sibilla in un antro del Monte Vettore è legato alla memoria, alla continuità, alle trasformazioni di antichissimi culti resi a divinità femminili, da Bona Dea a Cupra, da Venere a Cibele. Ma Cibele, la grande Madre dalla corona turrita, è probabilmente all’origine della stessa immagine allegorica dell’Italia. E secondo De Benardinis, la stessa Madonna di Filetta, patrona di Amatrice (venerata nel suo santuario del XV secolo), sarebbe la riproposizione cristiana di Cibele.
In piena seconda guerra mondiale, nel 1942, il “Corriere della Sera” pubblicò, il 12 settembre, un lungo reportage in due parti sulla cittadina oggi prima martire del sisma. L’autore era Indro Montanelli e il titolo Noi che siamo stati ad Amatrice. L’articolo destò l’attenzione di Arturo Reghini, l’esoterista pitagorico che fu il primo a coniare l’espressione, poi ripresa da Julius Evola, “imperialismo pagano”. In una sua lettera del 29 dello stesso mese all’amico Moretto Mori (lettera che si concludeva con la speranza che la guerra si concludesse, vittoriosamente, nel 1943) si legge: “Ho visto sul Corriere due interessanti articoli di Montanelli sopra Amatrice; non sapevo che Amatrice fosse rimasta tenacemente pagana sino a tardi; insieme agli altri elementi mostra che la tradizione di Amatrice ha una certa base” (in Dei Numeri pitagorici – Prologo, a cura di R. Sestito, Ancona 1991). In realtà, ad Amatrice e a tutta l’area oggi a noi tristemente familiare si deve guardare come una sorta di perno di tutto il “sacro” italico, precristiano e cristiano. Quelle stesse vie delle “primavere sacre” sono anche poi le vie di diffusione di quel monachesimo d’origine schiettamente italiana rappresentato prima dai benedettini (Norcia, non dimentichiamolo, è la patria di San Benedetto) e poi dai francescani, di cui Amatrice è stata nel Medioevo una roccaforte, ma come scriveva Febo Allevi, in un “sottofondo o stratificazione religiosa sibillina, il cui complesso oracolare pagano-ebraico-cristiano dalla più lontana antichità discende fino al secondo medioevo, insinunandosi nel pensiero e nelle idee degli ambienti gioachimiti, di Tommaso da Celano e nelle correnti spirituali francescane”.
Scarsa attenzione hanno dato i servizi televisivi alla Chiesa di San Francesco (XIII-XIV secolo) ad Amatrice, anch’essa gravemente colpita dal sisma. Qui, sulla parete di sinistra, vi è uno straordinario dipinto di scuola tardo-giottesca che raffigura l’Albero di Iesse. Dominato dall’immagine centrale di Maria, l’Albero, oltre i profeti ebraici sui rami, vede ai lati del tronco a destra Virgilio e la Sibilla, a sinistra Dante e Beatrice secondo una lunga tradizione locale, là dove gli studiosi contemporanei (Giuseppe Capriotti, Francesco Gangemi) vi vedono piuttosto il re Davide ed un angelo. Ipotesi, quest’ultima, che sarebbe avvalorata anche dal Dies irae di Tommaso da Celano, che congiunge notoriamente “David cum Sibilla” come profeti. E ricordiamo con Febo Allevi che Celano si trova “quasi all’inizio d’una linea retta che attraversando l’Aquila ed Amatrice, sale fin sopra la nostra montagna incantata”, la montagna appunto della Sibilla.
Ma se è molto probabile che le figure di sinistra siano Davide e un angelo e non Dante e Beatrice, la protrattasi nel tempo identificazione popolare, locale, resta non di meno significativa, rimarca la centralità “italica” di Amatrice. Virgilio e la Sibilla tengono in mano dei testi: il primo i famosi versi della IV ecloga sull’avvento di una nuova era, la seconda l’oracolo attribuito alla Sibilla Tiburtina sull’avvento di Maria quale madre del Messia. Enigmatico, nel fusto dell’albero sta un trono vuoto. Per lo storico dell’arte F. Gangemi è il simbolo di una “regalità vacante”. Insomma, dalla Chiesa di San Francesco (di cui solo la prossima settimana sapremo più chiaramente il destino dell’interno) emerge dal nostro lontano Medioevo e forse da un tempo ancora più lontano un messaggio escatologico, che ricorda pure il mito del “rex venturus”.
Qualcosa non c’è, è sparito, o deve tornare. Come la stessa Sibilla, di cui Allevi ancora negli anni 60 diceva che a Pretara di Arquata (altro sito martire) era viva la tradizione della discesa dal suo antro montano per aiutare gli abitanti, occultandosi poi a punizione degli stessi. Quella Sibilla il cui profilo era sembrato stagliarsi in una gigantesca ombra sul monte Priora fotografata nel settembre 2015 dai giovani del gruppo “The X Plan” in escursione, e che si può facilmente vedere in internet. Anche Julius Evola peraltro toccò il mito della Sibilla Appenninica (Sul “Roma”, nel 1956, con l’articolo Ancora esploratori alla ricerca della Sibilla), riconducendo “il luogo delle ultime Sibille” alle “tradizioni concordi di molti popoli” per cui “l’occultarsi in una sede sotterranea montana di un dato centro non è che un simbolo: il simbolo per il suo ritirarsi nell’invisibile e nel sovrasensibile”.
In tempi in cui dilagano interpretazioni forzate e più che fantasiose dei fatti più eclatanti, vorremmo astenerci dal suggerirne anche noi. Ci basta aver sottolineato il valore di “simbolo” che hanno i luoghi colpiti dal terremoto. E procedendo sul piano simbolico, sempre a sottolineare il nostro assunto iniziale (quello secondo cui forse mai come ora nei tempi ultimi è stata colpita l’Italia intera pur in un suo singolo territorio), non possiamo qui dimenticare che uno dei grandi crolli di questo sisma è quello di un albergo chiamato ROMA, albergo che ha pure singolarmente ospitato in passato la massima autorità dello Stato italiano (il presidente della Repubblica Ciampi) e la massima autorità della Chiesa Cattolica (il papa, nella persona di Giovanni Paolo II), che entrambe come tutti sanno risiedono a Roma. Roma, che è forse pure la sede di quel trono vacante nella Chiesa di San Francesco, trono regale e sacerdotale insieme, come quello del Veltro, del Dux dantesco, col suo ruolo nazionale ed universale a un tempo.
Dicemmo di due emblemi della famiglia amatriciana dei Novelli. Il primo è l’“albero della razza” (quello oggi violentemente scosso, quello oggi drammaticamente avviato a non dare più foglie/figli per far posto a genti che non vengono dalla stessa “matrice”?); il secondo è una Fenice che fissa il Sole e risorge dalle sue ceneri. Ma la Fenice fu, è (anche nel MA-TRV di De Berardinis) simbolo dell’Italia, la “sempre rinascente”, e giustamente entrambi gli emblemi del ceppo nobiliare amatriciano hanno come motto POST FATA RESURGO.
Sandro Consolato
(Un sentito ringraziamento a Tommaso Alessandroni per l’aiuto prestato alla stesura di questo articolo).
5 comments
Complimenti all’ autore a allo stesore per un articolo interessantissimo sulle nostre origini e storia!
Si prova soltanto sconcerto e smarrimento a vedere certe decisioni politiche e affermazioni che di fatto vanno assolutamente intese ed interpretate contro gli italiani. Generazioni e generazioni di italiani per secoli hanno perso la vita e lavorato a testa bassa per costruire un mondo, quello italiano attuale ed occidentale in genere libero e culturalmente emancipato. Mortificante e spregevole il tradimento di questi politici meschini e spietatamente opportunisti e di media faziosi e moralmente scandalosi al loro servizio.
Altre generazioni di italiani avrebbero avuto la forza, la capacità, e la determinazione di difendere prima di tutto gli interessi dell’Italia e degli Italiani, prima o poi lo spirito di quegli Italiani tornerà a sistemare le cose per bene…. quei tempi non sono per niente lontani…
Articolo bellissimo
Che tristezza, è dovuto succedere un terremoto devastante perché io conoscessi Amatrice e la “culla italica” che rappresenta il territorio intero devastato.
Che stupendo articolo, quanta cultura e fascino e bellezza di tradizioni ci siamo persi e perdono i nostri ragazzi a colpa di programmi educativi e scolastici redattti con il preciso intento di cancellare le antiche radici italiche. Articoli come questo, da soli,valgono ogni € di sostegno al PN.