Roma, 20 giu – Passata la sbornia del “petaloso” e la sviolinata istituzionale al seguito della neolingua boldriniana, l’Accademia della Crusca torna a fare il suo mestiere. E lo fa con un documento (non un paper) nel quale mette in chiaro alcuni punti contro l’avanzata della terminologia anglosassone nel nostro linguaggio quotidiano. Se esiste una parola o un concetto di lingua italiana – è il ragionamento – perché usare l’equivalente in inglese?
Lo studio è condotto dal gruppo Incipit, che raccoglie numerosi linguisti, il quale ha stilato un dettagliato elenco degli anglicisi evitabili. “Nel sistema universitario italiano è presente una forte disponibilità a impiegare termini ed espressioni provenienti dal mondo economico per designare o descrivere momenti della valutazione relativi alla didattica e alla ricerca, o per indicare fasi burocratico-organizzative previste nella vita ordinaria dell’istituzione”, spiegano gli studiosi della Crusca. E’ per questo che segnalano “l’esistenza di vari equivalenti italiani perfettamente adeguati, i quali eviterebbero di accentuare quell’immagine aziendalistica dell’università che sembra oggi imperante, ma che in realtà non riscuote consensi incondizionati”.
Ecco allora il parametro al posto del benchmark, lo strumento al posto del tool, l’analisi preliminare o a tavolino invece dell’analisi on desk. Seguono la customer satisfaction che trova espressione in italiano con soddisfazione del cliente, il debriefing traducibile senza perdita di significato con resoconto, idem per l’executive summary che non è altro che la sintesi. Perché poi parlare di valutazione della performance quando ci si può riferire alla valutazione dei risultati? E ancora: abstract si dice sommario, il feedback è la stessa cosa del resoconto, la deadline non è altro che il termine ultimo. Come detto, l’attenzione dei linguisti della Crusca è rivolta soprattutto a vocaboli di derivazione aziendale, abbondantemente usati (se non abusati) in particolar modo nell’ambito universitario. Il gruppo Incipit invita così “a riflettere sul rischio che questa fitta terminologia aziendale anglicizzante venga applicata in maniera forzosa e sia esibita per trasmettere un’immagine pretestuosamente moderna dell’istituzione universitaria, lasciando credere agli utenti e agli operatori professionali che i termini tecnici inglesi siano privi di equivalenti nella lingua italiana, cosa che appare falsa”.
Nicola Mattei
9 comments
Sono perfettamente d’accordo e cerco di usare sempre l’italiano ad esempio chiamando “posta elettronica” l’email.
…ma allora perché proprio voi in un articolo precedente avete scritto “rapporto shock” invece di “rapporto sconvolgente “??? 😉
Wonderful! Finalmente l’Accademia, che avevo eliminato come following su Twitter per protesta contro petaloso and company, riprende in mano la sua mission e la sua vision e si pone di nuovo come leader nel management della lingua. Scusate, forse non ho capito un caz (o dick?), ma a parte l’auto presa in giro per le troppe parole inglesi, sarei contento davvero che la Crusca si facesse perdonare gli scivoloni degli ultmi mesi. Capisco poi anche che a volte, soprattutto per i giornalisti, una parola corta inglese vince su una lunga italiana.
Scusate, torno sull’argomento italiano contro inglese, segnalando ai molti, che anche supportare è un anglicismo. In italiano esiste supporto, ma il verbo è sostenere.
Be’ allora perché non scriviamo i giornali come i messaggini telefonici (sms).
Io penso che proprio i giornalisti dovrebbero farsi carico dell’educazione linguistica, perché proprio da loro deriva gran parte dell’abuso dei neologismi esterofili. Senza contare che ho come l’impressione che sia venuto a mancare, specialmente nelle pubblicazioni in rete, la figura preziosissima del correttore di bozza (o sbaglio?). questa figura potrebbe, oltre ad assicurare un buon livello grammaticale, oggi molto carente, tradurre le bozze giustamente redatte frettolosamente dai giornalisti di “prima linea”, in articoli che si esprimono con i vocaboli ricchi di sfumature, anche se più “scomodi”, della nostra stupenda Lingua.
Ma quello è un anglicismo italianizzato… altrimenti dovremmo togliere pure le parole di origine greca, fenicia, etrusca, longobarda… va benessum!
Il correttore di bozze è sparito dai radar alcuni anni fa. La mia personale battaglia contro qual è con l’apostrofo ne è testimonianza. Ma devo dire che l’assenza del correttore di bozze elimina anche l’alibi del refuso, che il giornalista ignorante in italiano subito chiamava a propria difesa. Oggi mi batto anche contro la parola “importante” usata per significare grande, un’obbrobbrio che nasce in ambito medico (“una lesione importante”) e ha contagiato tutti.
anche battersi contro gli errori con gli apostrofi e con le doppie (“un’obbrobbrio”) sarebbe IMPORTANTE.
Saluti 🙂
Usare termini stranieri, soprattutto derivanti dall’inglese, è un sistema per manipolare le persone. I media (che si legge proprio ‘media’ e non ‘midia’ perché è un termine latino), amano parlare per riempirsi la bocca di cose che la gente comune ignora. La ‘spending review’ tanto amata da Monti e i suoi seguaci non è altro che la revisione di spesa. I ‘target’ di Renzi sono obiettivi che non raggiungerà mai.
L’Accademia è bene che si sia espressa, ma voglio vedere quanti giornalisti faranno il loro mestiere di salvaguardia della nostra lingua e rendere più comprensibili le cose alle persone comuni.
non sono modi per manipolare le persone, bensì espedienti per colmare vuoti lessicali o per darsi un certo tono.
Oggi si ha una contaminazione di termini inglesi, come nel Seicento si abusava del francese. Probabilmente tra cinquecento anni useremo termini cinesi e ci saranno sempre drappelli di puristi (compreso il sottoscritto) a manifestare contro tali oscenità.