Roma, 1 mag – Che cosa deve rappresentare, per l’uomo, il lavoro? La liberazione dall’ansia. Ansia di non trovarlo, ma anche l’ansia di un lavoro ridotto a schiavitù legalizzata. È questa una delle grandi conquiste intellettuali di Ezra Pound. Al di là di tutti i luoghi comuni pauperistici, Pound ha avuto il merito di introdurre per la prima volta la categoria dell’ansia in un contesto politico-economico. L’ansia di cercare lavoro, di perderlo, di vedersi rinnovato il contratto a termine, di arrivare a fine mese, di riuscire a conservare un tetto sulla testa, di riuscire a sposarsi e mettere su famiglia.
«Senza lavoro, sperare è follia», leggiamo nel canto 53. E ancora, con parole a dir poco profetiche rispetto a tempi come i nostri in cui i contratti a termine la fanno da padrone: «La libertà dalla preoccupazione, inerente alla ragionevole certezza di conservare il proprio lavoro, deve valere almeno il 25 per cento di OGNI reddito». Questa dimensione di liquefazione delle sicurezze sociali, questa restrizione dell’orizzonte di speranza per il lavoratore ha oggi un nome ben preciso: precariato. Contro il quale spesso si è innalzato uno slogan: “Il lavoro non è una merce”. La Cgil ne ha fatto spesso un motto da portare in piazza, ma già nel 1944 la Conferenza Internazionale del Lavoro svoltasi a Filadelfia riaffermando «i principi fondamentali sui quali l’organizzazione è basata», metteva al primo posto proprio questa dichiarazione di principio: il lavoro non è una merce. recentemente, la frase è diventata anche il titolo di un saggio sulla flessibilità di Luciano Gallino, professore emerito all’università di Torino e guru della nuova sinistra. Eppure pochi sanno che il grido di battaglia anti-precariato fu anticipato dal solito Pound, che nel suo Social Credit: An Impact, del 1935, si trova pionieristicamente a ribadire più volte che no, il lavoro non è affatto una merce. Come al solito era in vantaggio su tutti.
La grande lezione poundiana insegna che l’usura è l’incapacità strutturale e cancerosa di programmare il futuro, di pensare a se stessi in una dimensione che non sia “a tempo determinato”, di sapersi mettere in prospettiva. L’usura è la precarietà, economica e morale. Una precarietà che sradica. Chi è amico del radicamento, chi crede che l’esistenza umana guadagni senso, anziché perderlo, attraverso la continuità e la stabilità, non può non individuare in questa battaglia un fattore positivo e ineludibile. Anche per sottrarre l’argomento alle interpretazioni banalmente economicistiche, materialistiche, piagnucolose, bassamente rivendicative. Un vero manifesto contro il precariato sembra invece il famoso canto 45, anche a dispetto del suo carattere apparentemente “reazionario”. Qual è, infatti, il primo obbiettivo dell’usura? La casa. La sicurezza per eccellenza.
«Con usura nessuno ha una solida casa
di pietra squadrata e liscia
per istoriarne la facciata.»
Quello dell’emergenza abitativa è un problema particolarmente sentito da Pound. «Personalmente – spiegava – sostengo che ogni individuo debba possedere una casa, penso cioè che ogni individuo, uomo o donna, dovrebbe avere un certo spazio in cui potersi ritirare ed essere al riparo da ogni interferenza esterna quale che essa sia».
Ancora:
«usura soffoca il figlio nel ventre
arresta il giovane amante
cede il letto a vecchi decrepiti,
si frappone tra giovani sposi. Contro natura
A Eleusi han portato puttane carogne crapulano
ospiti d’usura».
Qui emerge una delle caratteristiche del discorso poundiano sul lavoro: il suo insistere sulla rilevanza che hanno certi temi nei rapporti sentimentali, familiari e sessuali. Basta guardarsi intorno, in effetti, per capire quanto devastante sia l’impatto della precarietà lavorativa sulle relazioni umane più immediate. «Almeno ai fini statistico-demografici – chiosava Giano Accame – andrebbero calcolati i milioni di bambini non nati sotto la pressione delle più gradevoli scelte edonistico-consumistiche offerte dal libero mercato rispetto all’allevamento dei figli. Il guaio, per la continuità della stirpe, è che mentre nelle società agricolo-patriarcali i figli rendevano, oggi in città rappresentano soprattutto un costo».
Va infine ricordato come Pound fosse un antesignano dell’idea di “lavorare meno per lavorare tutti” (slogan che è peraltro diventato il sottotitolo di Abc dell’economia nell’edizione degli anni ‘90 per i tipi di Shakesperare and Company): «Se a nessuno venisse permesso di lavorare (in quest’anno 1933) per più di cinque (5) ore al giorno, non ci sarebbe quasi più alcun disoccupato e alcuna famiglia priva di titoli cartacei sufficienti per consentirle di mangiare», diceva. Anche su questo tema, va detto, era piuttosto facile per Pound trovare consonanze con la politica del regime fascista, che nel 1935 proponeva all’organizzazione Internazionale del Lavoro la riduzione della settimana lavorativa da 48 a 40 ore. Ma già l’accordo Pirelli-Cianetti, del 1934, aveva raggiunto il traguardo delle 40 ore favorendo il recupero di 200 mila disoccupati su 800mila. «So per esperienza – spiegava il poeta – che si può vivere infinitamente meglio con pochissimo denaro e molto tempo libero che con più denaro e meno tempo. Il tempo non è denaro, ma è quasi tutto il resto».
Ma la riscoperta dell’otium, che ricorda in una certa misura alcune tesi di un Serge Latouche, non coincide semplicemente con il non lavoro, magari con la disoccupazione. «L’ozio non si ottiene semplicemente non lavorando. L’ozio è tempo libero liberato dall’ansia», spiega Pound. Per il poeta, il rapporto della nostra società con il lavoro, in definitiva, deve essere ribaltato: oggi esso è la principale preoccupazione della vita individuale ma nei rapporti sociali e nelle dinamiche politiche occupa un posto assolutamente secondario rispetto al capitale. Per Pound, al contrario, il lavoro dovrebbe diventare il cardine della nuova società liberata dall’usura, il fondamento primario di ogni costruzione sociale e politica, mentre dovrebbe cessare all’istante di occupare il posto centrale nelle nostre esistenze in termini di tempo, fatica e ansia. Una visione illuminante, e forse proprio per questo rinchiusa dentro una gabbia da cui non è mai uscita.
Adriano Scianca
3 comments
Erza Pound sicuramente ben sapeva di quanto l’usura nel futuro avrebbe demolito interi popoli se questi non prendevano coscienza.Il fascismo nel 1935 nazionalizzo’ molte banche e la Banca d’Italia e per questo i banchieri stranieri ci giurarono vendetta facendoci le sanzioni con la scusa dell’ Etuiopia e portandoci alla 2a guerra mondiale.Con il denaro a costo zero e non dovuto agli strozzini l’Italia usci’ dalla crisi del 1929 molto prima degli stessi USA e di altri paesi. In Italia si è avuto un crollo verticale del benessere e della ricchezza proprio dal 1992, anno della svendita e privatizzazioni delle ex banche pubbliche e della Banca d’Italia , divenuta privata in mano ai banchieri centrali stranieri. Oggi abbiamo una BCE privata che in cambio di carta prodotta a costo zero si prende tutte le ricchezze pubbliche e private.
Il lavoro non è una merce, ma è un servizio che si offre e si compra sul mercato, come qualunque altra cosa. Quindi, conviene avere una serie varia di capacità da poter offrire su mercati differenti, e adattarsi alle richieste del mercato. Perché è vero che la mancanza di lavoro crea ansia; ma non possiamo obbligare nessuno a acquistare un servizio di cui non ha bisogno, perché un altro ha urgenza di vendere un servizio che nessuno vuole.
legge bancaria ottima dei tempi ormai del tutto disintegrata