Roma, 18 apr – Terza puntata della nostra inchiesta sull’Europa. Al primo articolo del tedesco Philip Stein e a quello di Gabriele Adinolfi risponde il presente contributo di Matteo Rovatti. Seguiranno presto altri interventi. [IPN]
L’articolo di Stein, pubblicato su queste pagine il 15 c.m., permette di rispondere una volta per tutta ad una domanda lacerante: cosa ha in comune la nuova destra con la vecchia sinistra? Giannino con Landini? Laura Boldrini con Angelino Alfano? Il Sole 24 Ore con il Manifesto? Romano Prodi con Valentina Nappi? Semplice: il mantra del “più Europa”, che si accompagna necessariamente alla critica di “questa Europa”. In effetti, praticamente tutti i commentatori politici, giornalistici, economici, culturali d’Italia continuano a parlarci del “più Europa” ma al contempo tutti sono stati costretti dalla forza degli eventi a prendere le distanze dall’UE tecnicamente intesa. Ci vuole più Europa, ovvio, però deve essere più “solidale”, deve essere più “federale”, deve mettere i “bilanci in comune”, deve fare “politiche per la crescita”. In altre parole, e Stein lo dice esplicitamente, bisogna addivenire ad un’autentica federazione europea, il vecchio sogno di Spinelli degli Stati Uniti d’Europa, o in qualunque altro modo li si voglia chiamare, non è una questione nominalistica ma sostanziale.
Ora, di per sé il ragionamento fila. Abbiamo sempre detto, per esempio, che il problema dell’Euro è che una moneta senza Stato equivale nei fatti ad un accordo di cambio fisso che avvantaggia le economie mercantilistiche ai danni di quelle in cui salari e prezzi crescono ad una velocità relativamente maggiore. Un Governo federale europeo con un budget adeguato potrebbe fungere (come di fatto avviene già a livello dei singoli Stati) da bilanciamento degli squilibri, ed addirittura da volano di sviluppo generale (e quindi riduzione degli squilibri medesimi) attraverso adeguate politiche di investimenti produttivi di lungo periodo. Addirittura, a destra si sogna una concorrenza di fatto fra Use e Usa, con i primi che si emancipano finalmente dalla sudditanza politica, economica e militare dai secondi, magari in alcune visioni di fanta-geopolitica thiriartiana, ponendosi alla testa del Terzo Mondo in cerca di emancipazione.
A questo punto, però, sorge un dubbio amletico: ma per quale motivo gli Usa hanno appoggiato il processo di integrazione europea, se esisteva anche solo la remotissima ipotesi che esso potesse rivoltarglisi contro? Che il movimento federalista europeo sia una creatura americana è un dato di fatto oramai studiato anche a livello accademico [1] e del resto tranquillamente rivendicato dai maggiori protagonisti dell’epoca. Possiamo pensare che al Dipartimento di Stato ed alla Cia fossero tutti fessi, ma prudenza storica e scientifica ci impone di andarci cauti con i giudizi avventati. Perché anche in tempi relativamente recenti il falco neoliberista Robert Mundell [2] vede nell’integrazione europea qualcosa di meraviglioso, primo passo verso una futura unione transatlantica? È possibile che nessuno abbia timore della eventualità di una Europa federale, socialista, autarchica come auspicato a vario titolo dagli intellettuali della destra più colta e presentabile?
Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro [3], per la precisione proprio in quell’America amata-odiata la cui storia serve per spiegare meglio quello che intendiamo. Amata perché la si vuole imitare, odiata perché non si vuole ammettere di volerla imitare. Nei primi tempi dell’indipendenza dall’impero britannico, il dibattito politico interno alla neonata ed ancora fragile unione fu polarizzato dalle fazioni che potremmo definire dei “jacksoniani” e dagli “hamiltoniani”. L’argomento del contendere è presto detto: i primi, volendo tutelare gli interessi dei latifondisti, desideravano un Governo federale debolissimo, i secondi, volendo sviluppare il settore manifatturiero, lo volevano fortissimo. Infatti, soltanto grazie a un rapido sviluppo delle manifatture le fattorie della nazione avrebbero potuto prosperare, applicando le nuove invenzioni alla coltivazione e all’allevamento, e ugualmente al nutrimento della classe operaia creata dall’espansione economica fondata sull’industria trainata dalla forza del vapore, che all’epoca negli Usa era praticamente sconosciuta. Hamilton, momentaneamente vittorioso, impose la sua linea come ministro del Tesoro: dazi sui prodotti industriali britannici (che avrebbero strangolato la nascente manifattura americana), alti salari per convincere i lavoratori a non dedicarsi all’agricoltura (cosa assai difficile in una nazione sconfinata ed all’epoca spopolata) e soprattutto una Banca Nazionale che finanziava progetti di sviluppo di lungo periodo anche in assenza di feticci quali la “copertura aurea” o simili.
Con alterne vicende, fra cui una tremenda guerra civile, quello che List [4] chiamava “sistema americano di economia politica” trasformò una potenza locale, produttrice di materie prime, sottomessa di fatto ai britannici, nella prima potenza industriale del pianeta. Da notare che questo sistema di governo dell’economia ha avuto più recenti e raffinate applicazioni nel XX secolo nelle tre nazioni che riuscirono a superare con le proprie forze la crisi planetaria: Italia, Germania e Giappone. Casualmente le nazioni che sono state distrutte proprio durante la Seconda Guerra Mondiale. Cosa c’entra questa divagazione storica con l’oggetto del presente articolo, ovvero l’edificazione degli Use? Ce lo spiega l’ideologo massimo del federalismo europeo, quel geniale Von Hayek padrino del neoliberismo[5]: «In una federazione di stati nazionali la diversità di interessi è maggiore di quella presente all’interno di un singolo stato, e allo stesso tempo è più debole il sentimento di appartenenza a un’identità in nome della quale superare i conflitti stessi. Un’omogeneità strutturale, derivante da dimensioni limitate e tradizioni comuni, permette interventi sulla vita sociale ed economica che non risulterebbero accettabili nel quadro di unità politiche più ampie e per questo meno omogenee».
Hayek, non essendo un vacuo teorico destrorso ma un fine studioso liberale, conosceva perfettamente l’esempio americano, e sapeva che il conflitto si era risolto in parte a favore del potenziamento del Governo federale proprio perché in fondo si trattava di conflitto distributivo interno ad una popolazione omogenea di borghesi wasp, in larga parte con interessi in comune contrapposti a quelli dei nativi e degli schiavi. Dal suo punto di vista, e da quello del suo maestro Menger, questo fu un grave errore, che portò poi gradualmente al disfacimento del “vecchio sistema” deflattivo fondato sul Gold Standard noto come impero britannico, in cui liberismo e liberoscambismo pressoché assoluti erano funzionali alla tutela incondizionata della rendita finanziaria di una oligarchia già all’epoca largamente transnazionale, anche se ovviamente eurocentrica. Nasce all’epoca il mito degli “egoismi nazionali” che ostacolano la pace, ovvero il mercato libero e globale.
Si vuole costruire uno Stato federale europeo, ma non ci si rende conto che per avere uno Stato, oltre al territorio ed alla sovranità, è necessario avere un popolo. In fondo il discorso è tutto qui. Non si vuol certo dire che per avere uno Stato, sia pur federale, è necessaria l’omogeneità culturale assoluta, ma senza dubbio l’esistenza di un ceppo dominante e largamente maggioritario ne è condizione imprescindibile. Prendiamo la Svizzera. Tralasciando il dettaglio che la genesi storica della Confederazione risale alla lotta separatista dei cantoni sovrani contro il dominio asburgico, fatto che forse dovrebbe sconsigliare agli europeisti dall’eleggerla a paradigma, notiamo come nella multiculturale Svizzera due terzi dei cittadini siano germanofoni. Gli Usa sono nati dallo sterminio wasp degli autoctoni. Russi etnici e cinesi Han sono rispettivamente i tre quarti e i quattro quinti della popolazione dei loro paesi, e comunque, come dovrebbe essere noto, esistono innumerevoli problemi con le varie minoranze etniche, in particolare (ovviamente) con quelle di fede islamica.
Esistono, ovviamente, casi storici in cui è stato possibile attuare un’unione politica in relativa eterogeneità culturale della popolazione: Urss, Jugoslavia, Libano, Nigeria, Belgio, Afghanistan, India. Ebbene, non si tratta a parere di chi scrive di esempi di successo. Tanto per dirne una, l’India è stata unificata esclusivamente dall’imperialismo britannico, e comunque ha subito nella sua breve storia indipendente ben due sanguinarie secessioni. Anche adesso le tensioni etniche, religiose e linguistiche sono all’ordine del giorno. Chi desidera l’unità politica europea si pone nei fatti nel solco della tradizione hayekiana di azzeramento delle sovranità intese come pericolo per il “mercato” attraverso la costituzione di un governo centrale debole ed incapace di fungere da katechon alla valorizzazione del capitale. Magari i tecnocrati hanno sbagliato i calcoli, ma si deve dimostrare nei fatti e non con fumose astrazioni e slogan buoni per tutte le stagioni come “più Europa” o “Europa nazione”.
L’Europeismo è una fissazione ideologica ineffettuale che almeno in Italia (non sappiamo nella patria di Stein) nasce dal disprezzo e dall’odio di sé, quella cosa che è stata brillantemente chiamata autorazzismo. Facendo i conti della serva, l’economista Sapir ha calcolato [6] che un’unione federale reale comporterebbe, nell’attuale situazione di rapporti di forza, almeno 8 punti del PIL tedesco nel bilancio comune, pensandone anche uno abbastanza modesto intorno al 30% del PIL europeo, indi molto più basso per esempio di quello italiano o tedesco singolarmente presi rispetto alle proprie economie nazionali. Nessun bottegaio bavarese, che già ebbe problemi a finanziare il fallimento del Land di Berlino qualche anno addietro, accetterà mai un simile impegno. Esattamente come, tanto per fare un altro esempio molto terra-terra, nessun francese potrà mai accettare di porre il proprio arsenale atomico sotto il controllo di un governo sovranazionale.
Lasciamo poi perdere il trucco retorico di attribuire ai partiti nazionalpopolari l’idea dell’uscita dall’Euro o dall’Ue come panacea di tutti i mali. Si prenda il programma del Fn francese [7], in cui praticamente vengono affrontati tutti gli aspetti di politica economica, sociale e culturale possibili. Si potrà anche non essere d’accordo con le soluzioni proposte, ma dire che essi non vengono toccati è semplicemente falso. Persino la Lega di Salvini, su impulso di Claudio Borghi Aquilini ha stilato un programma economico di 10 punti che, pur fra mille ambiguità (su cui ci siamo già soffermati in passato), non sembra volersi affidare alla semplice arma valutaria per rilanciare l’economia. È viceversa molto interessante la prospettiva storicistica hegelo-marxista dell’«andare avanti», un tempo appannaggio dei comunisti ed oggi ripresa in pieno anche dalla “destra rivoluzionaria” (contrapposta idealmente a quella che Stein chiama “destra conservatrice”). Uscire dall’Ue e tentare un altro percorso viene quindi visto come un “andare indietro” rispetto al raggiungimento delle magnifiche sorti e progressive dell’europeismo escatologico messianico millenaristico. L’idea della federazione europea come alternativa all’egemonia americana è in realtà, come abbiamo visto, in larga parte una mera utopia che, come tutte le utopie, pretende che la realtà si conformi alla teoria. Ed infatti gli europeisti (ovvero il 95% dei politici, dei giornalisti, degli intellettuali, almeno in Italia) leninianamente fungono da utili idioti per quelli che, a rigore, sono gli unici che coerentemente possono rivendicare la paternità e la perfetta continuità ideale con questo progetto immondo ed anti-umano: gli economisti marginalisti (quasi tutti, a livello accademico), ovvero quelli che ritengono, e lo scrivono pure, che gli Stati non debbano avere politica industriale, commerciale, fiscale, monetaria, di difesa, doganale, le quali sarebbero invece da delegare alle burocrazie europee. Costoro, insieme ai 50.000 lobbisti dell’Ue, sono gli unici legittimati a definirsi europeisti, in quanto il progetto di integrazione federale europea persegue fin dall’inizio questi obiettivi, ed in modo del tutto dichiarato, senza menate complottiste. Si legga Hayek, si legga Kalergi, si legga Spinelli se proprio non ci si crede. Tutti ossessionati dagli “egoismi nazionali” che soffocano il mercato che ovviamente conduce alla “pace universale”. Spinelli [8] addirittura si lamentava del fatto che i sindacati anteponevano (allora) gli interessi dei lavoratori ai “sacrifici” necessari per l’integrazione. Che scandalo, signora mia, dove andremo a finire, la gente vuole persino essere pagata per lavorare.
In conclusione, l’unica Europa che abbia un senso è quella teorizzata da de Gaulle e Giuseppe Mazzini (che Stein arruola impropriamente nelle file degli “unionisti”), e perseguita negli anni esplicitamente dal Fn di Jean-Marie Le Pen, ovvero una confederazione di Stati sovrani che cooperano liberamente e flessibilmente su questioni specifiche, pronti a difendere la propria rispettiva indipendenza. Qualcosa di molto diverso sia dall’utopia federale, sia dall’Ue fattivamente intesa, come di recente persino la scienza politica più ufficiale ed accademica [9] ha cominciato ad analizzare. Un’Europa sovranista, un’Europa della vera solidarietà fra patrioti il cui amore incondizionato per la propria comunità non comporta il disprezzo per quelle altrui, il cui simbolo potrebbe essere iconograficamente rappresentato dalle 10 tonnellate di cibo che CasaPound ha regalato ad Alba Dorata ed al popolo greco. Solidarietà fra patrioti e non livellamento fra traditori ossessionati dalla fine della Storia.
Matteo Rovatti
Note
[1] Aldricht, Richard J., OSS, CIA and European unity: The American committee on United Europe, 1948-60 Diplomacy & Statecraft.
[2] Mundell, Robert, The Euro as a stabilizer in the international economic system.
[3] Jones, Malvin, Storia degli Stati Uniti d’America. Dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri.
[4] List, Friedrich, Das nationale System der politischen Ökonomie.
[5] Hayek, Friedrich von, The Economic Conditions of Interstate Federalism.
[6] Sapir, Jacques, Le coût du fédéralisme dans la zone Euro.
[7] http://www.frontnational.com/le-projet-de-marine-le-pen/
[8] Spinelli, Altiero, Manifesto di Ventotene.
[9] Majone, Giandomenico, Rethinking the Union of Europe Post-crisis.
1 commento
Gli Stati Uniti d’Europa, sono una mera utiopia . I popoli europei hanno tutti delle caratteristiche diverse per lingua, cultura, condizioni sociali-economiche, etc. Lo dico a chi anche in buona fede e con motivazioni identitarie valide supporta quest’idea, è molto meglio creare un patto di aiuto e solidarietà non solo fra stati europei ma tra i popoli bianchi extraeuropei per fronteggiare i drammi di quest’epoca (crisi economiche, invasioni allogene) ma tenendo gli stati nazionali caratteristici di un popolo.
L’idea dei sinistrosi e liberisti di fare dell’Europa un unico popolo è semplice: eliminiamo gli europei e sostiuiamoli con un’unica accozzaglia di popoli. Non è quello che si sta facendo?