Roma, 14 apr – «Vi sono almeno 50 compagni capaci di fare il prefetto meglio di me! Niente da fare. Valiani mi oppose le esigenze politiche della spartizione delle cariche tra i cinque partiti del comitato. Se non andavo io, il partito perdeva l’incarico ambito di prefetto politico di Milano. Ci ho pensato più tardi: le lottizzazioni contro le quali ho protestato e protesto tuttora, partirono proprio da noi, dall’antifascismo nel suo momento più militante, quello dell’insurrezione conclusiva». Parole pronunciate da Vittorio Foa, uno dei tanti i maestri di democrazia e libertà della nostra repubblica, scomparso qualche anno fa.
Il teorico di sinistra si è rivelato, alla fine della sua carriera, capace di ammettere il fallimento dei sogni sociali e rivoluzionari che animarono gli anni del ritorno della democrazia in Italia: sono analisi utili per capire le anomalie del paese e la carenza di partecipazione e senso di comunità che caratterizza i nostri giorni. La disincantata lettura di Foa ci porta dentro l’anomalia tutta italiana di un sistema democratico che nasce dal suo aspetto degenerativo: la partitocrazia. Questa si insedia nelle istituzioni sin dal 1944, nel pieno dei fermenti “liberatori”, quando si cancella brutalmente ogni traccia del passato ma non ve n’è ancora alcuna del futuro. I partiti nati dalla resistenza provvedono subito a spartirsi cariche e compensi, e a creare apparati burocratici clientelari ed invadenti. In più, non c’è neanche un nutrito e reale consenso popolare alle loro spalle, come ha ricordato Adriano Scianca quando scrisse che «Il 25 aprile non è una festa di popolo». A spingere queste organizzazioni al potere contribuiscono atti terroristici, propaganda (ad esempio, semplici scontri sono fatti passare come le eroiche “quattro giornate di Napoli”) ed ordini di potenze straniere, dai diktat staliniani ai dollari americani. Emerge un fattore decisivo: il non voler riconoscere (da parte dei “padri costituenti”) a questi partiti veste giuridica, né di diritto privato né pubblico: permettendogli così di esercitare il loro arbitrio senza controlli e responsabilità. Problematica, questa, che si estende al sindacato, il quale non a caso oggi è relegato in posizione di mera protesta esterna alle reali dinamiche industriali. Da un regime che cercava di immettere «tutto nello Stato» si passa all’esatto contrario. E’ un subdolo stato “illegale” quello che entra nelle stanze del potere, finanziandosi per di più illecitamente. E nulla cambia la successiva istituzione del finanziamento pubblico: vista la natura del sistema non avrebbe potuto essere altrimenti.
Craxi è l’unico che arriva a riconoscerlo pubblicamente, nel celebre e disperato discorso del 3 Luglio 1992, davanti ad un Parlamento sbigottito quanto colpevole: «I partiti hanno ricorso e ricorrono a risorse aggiuntive in forma illegale o irregolare (…) se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora tutto il sistema sarebbe criminale (…) non credo ci sia nessuno in quest’aula che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario (…)». Nessuno si alzò. Emerge l’immagine di un “comitato d’affari” al potere per decenni, raramente capace di fare i veri interessi della nazione. Anzi, alcune delle esperienze migliori nacquero proprio in antitesi alle indicazioni partitiche, pensiamo solo all’ordine dato a Mattei di liquidare l’Agip. Non mancarono, a onor del vero, momenti importanti e opere feconde di statisti di rilievo, ma il paese rimase il perfetto esempio di partitocrazia (termine reso noto dal giurista Giuseppe Maranini nel 1949, anche se già Lorenzo Caboara nel 1905 aveva scritto «Partitocrazia cancrena dello Stato») al suo massimo splendore, che «occupa ogni spazio possibile per compensare in termini di potere la perdita di consenso», come disse lo storico Marco Gervasoni. Il reale potere decisionale dei cittadini viene svuotato e l’unica sintesi che si realizza è quella tra i vantaggi dei governanti. Situazione interrotta non da un ravvedimento della classe politica italiana, ma solamente dall’entrata in campo di forze economiche esterne. Francesco Cossiga, con una delle sue celebri “picconate”, ne descrisse le modalità, più volte ricordata in tempi recenti: un incontro sul panfilo «Britannia» in cui i banchieri della City dettano le condizioni della svendita del patrimonio pubblico italiano ai maggiori esponenti finanziari italiani (Prodi e Draghi in primis), cavalcando gli scandali di tangentopoli e la scomparsa di un’intera classe dirigente. L’eliminazione del capro espiatorio Bettino Craxi è la definitiva sconfitta degli spazi rimasti per la politica e l’esercizio della sovranità italiana. Il leader socialista, invischiato negli intrighi partitocratici (pentapartito, CAF), non riuscì a cambiare realmente il sistema e realizzare il sogno della «grande riforma» in senso presidenziale, seppur rimanendo un raro esempio di decisionismo e primato della politica.
Niente di più lontano dalla seconda Repubblica, dove le elezioni sono diventate ancor più momento di scelta apparente e la vita del popolo ha continuato ad essere guidata da potenze, interessi e dinamiche ad esso estranei. Il “comitato d’affari” partitico si è rinnovato per trovarsi peggiore di prima, vista la mancanza di senso d’appartenenza, reale partecipazione e di un’entità statale organica e superiore, esso ha continuato ad agire secondo la sua natura: portando avanti interessi di casta a danno della collettività, il cui intimo significato gli è sconosciuto, come già era estraneo a molti dei “lottizzatori” protagonisti del ritorno della democrazia in Italia. E le ultime mosse del PD di Renzi, per nulla scalfito dalla morbida “scatola vuota” rappresentata dal Movimento Cinque Stelle, non lasciano presagire cambiamenti significativi all’orizzonte.
Agostino Nasti
2 comments
Hi
articolo bellissimo!!!