Cesenatico, 15 mar – Vola il tempo, ma certe ferite non trovano cicatrice. Dal 5 giugno 1999 sono passati quasi 17 anni, lunghi, destabilizzanti, estenuanti a tratti infamanti. Quel giorno abbiamo assistito all’eclissi umana e sportiva di Marco Pantani, un’agonia terminata nel residence le Rose il 14 febbraio del 2004. “Un clan camorristico minacciò un medico per costringerlo ad alterare il test e far risultare Pantani fuori norma”, queste le parole del pm della Procura della Repubblica di Forlì Sergio Sottani. Il segreto di pulcinella, ma chi ha visto il Pirata mangiarsi le salite, schiantare gli avversari, scacciare la sfortuna si è sentito in un pomeriggio qualunque di marzo con il sangue – ancora una volta – raggelato, l’esatto opposto di quel ghiacciato luglio sulla cima de Les Deux Alpes nel trionfo del Tour 1998.
Una coltre di nebbia, una Silent Hill fatta di ruote e pedali che ha voluto dimenticare, nascondere la testa sotto la sabbia per non vedere che a Madonna di Campiglio i test, effettuati al corridore natio di Cesenatico, furono manipolati tramite deplasmazione. Un processo che porta all’innalzamento dell’ematocrito – 51,9% per il romagnolo contro il famigerato 50% di soglia all’alba del 2000 – e una riduzione delle piastrine nel sangue. Esami precipitosi, viziosi, anomali dal punto di vista delle tempistiche fatti con coscienza di causa: l’eliminazione fisica e morale del campione e capitano della Mercatone Uno.
Sul tavolo i miliardi, le scommesse, uno sport appena entrato nell’occhio del ciclone dell’azzardo quando solo pochi mesi prima veniva scosso dallo scandalo Festina alla Grande Boucle ’98. Lì Marco prese posizione, contro i laboratori che creavano muscoli e polmoni, un mondo malato, disturbato dall’ossessione di vincere, dall’ossessione dell’individuo divenuto rito onanistico con Lance Armstrong qualche tempo dopo. Una scienza dell’inganno. Pantani faceva parte di quel mondo, ma fu messo alla berlina ed il perché lo chiediamo a gran voce. Dov’erano il Coni, la Federciclismo, la stampa, gli addetti ai lavori in quei giorni fatti di camorra e mazzette? Dov’erano i moralizzatori, i benpensanti del pedale “bio” mentre schiacciavano un uomo per darlo in pasto alla depressione e al nichilismo più completo. Ben oltre i demeriti della malavita vanno queste persone, accanite come iene su un cadavere ormai esanime a terra. Il bel Renè, in tempi non sospetti, mise in guardia tutti: “non so come, ma il pelatino non arriva a Milano”, ed oggi ci troviamo difronte all’intercettazione di un camorrista – raccolta in esclusiva da Davide De Zan per Premium Sport – in cui Mister X asserisce che dietro la fine del Pirata c’è la criminalità organizzata.
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Un polverone rovinoso, chiarezza sì, ma tutti i reati sono stati prescritti e quel Giro non vedrà mai il nome di Marco nell’albo d’oro. Quasi un ghigno beffardo del destino che con una mano ripara e con l’altra lascia tutto immutato, ma non l’onorabilità, quella Pantani non l’ha mai persa nemmeno nel lento tunnel della cocaina. Un urlo liberatorio che squarcia il cielo e la ricerca della verità fatta da Tonina Pantani, che da oltre tre lustri combatte per ripulire il nome del figlio.
In un incedere incerto il ciclismo ha continuato la sua marcia, il nome leggendario del romagnolo aleggia ancora nei luoghi di culto di questo sport, mentre l’alone nero di chi fu complice della meccanica distruzione del suo interprete principale, all’epoca dei fatti, è come uno spettro ancora tra i raggi delle biciclette. La grande menzogna non andrà mai in prescrizione, checché ne dicano le carte dei processi, perché basta chiudere gli occhi per vedere la bandana lanciata, il rapporto scalato, il corpo in piedi sui pedali e il sudore irrorare la vittoria sulle cime di Marco Pantani.
Lorenzo Cafarchio