Roma, 27 feb. – Oswald Spengler affermava con forza il primato della politica internazionale su ogni altro tipo di politica. Nel confronto tra Stati, sosteneva, si vede la forza e la salute di un popolo. La politica estera è effettivamente un riflesso della politica interna di una nazione, della sua saldezza culturale e della sua coesione. Il valore di una classe politica si mette in buona o cattiva luce proprio nel doversi rapportare alle questioni poste dalle relazioni internazionali.
Spengler diceva anche che l’ottimismo è viltà, ma egli non raccomandava neppure un atteggiamento di pessimismo inoperoso. Piuttosto l’attitudine per i tempi di crisi dev’essere tragica ed eroica. Quella che da più parti viene chiamata crisi dell’Europa e la paventata fine del sistema Schengen è il segno lampante della veridicità delle parole del filosofo tedesco. Un’unione di Stati tenuta insieme da interessi economici e norme assurde, si sfalda come neve al sole per l’inconsistenza delle sue classi dirigenti. Nel mondo globale, dove ogni evento locale ha un riflesso su scala planetaria e dove l’interconnessione di interessi e culture è tale da mettere in potenziale pericolo ogni attore sulla scacchiera, non si può pensare realisticamente di fare politica avendo come unico orizzonte l’interesse immediato e una visione storica, politica e culturale ristretta.
La disgregazione in corso della UE e il disorientamento delle politiche comunitarie, dettato precisamente da miopia e ottusità, aprono tuttavia prospettive di una forte ripresa culturale grande-europea che qui e là mostra di muovere i primi passi. Raffrontando il buon senso della politica estera del premier ungherese Viktor Orban con l’inettitudine dei primi ministri francese, italiano o, in parte, tedesco, è facile notare come uno Stato fino ad oggi ai margini delle questioni continentali si stia facendo largo con sempre maggior credibilità grazie a una capacità di visione di grande politica, adatta ai tempi e alle sfide presenti e future. Si tratta cioè di prendere coscienza dei mutamenti in corso, del fatto che la creazione di un mondo unipolare a guida occidentale-americana non è un fatto certo e necessario ed anzi viene fortemente contraddetto – già l’avevano capito Samuel Huntington e Robert Kagan – dall’emergere di altre potenze mondiali non omologate al sistema atlantico.
Capire questa semplice realtà dovrebbe indurre la classe politica a un’opera di totale ripensamento dell’Europa. Come ha puntualmente notato il geopolitico russo Alexander Dugin nel suo saggio Huntington, Fukuyama and Eurasianism, questa non è più l’epoca degli Stati tradizionalmente intesi, ma è il tempo del ritorno delle civiltà. Quale configurazione esse assumano non è facile dire, ma il processo di creazione di questi organismi culturali prende sempre avvio dall’imporsi di un’egemonia culturale e politica di uno Stato che sappia divenire guida e polo attrattivo dei partner. Chi pensa che a una integrazione di questo genere sarebbero d’ostacolo frontiere, restrizioni nazionali, identità culturali e quant’altro, manca ancora una volta di una visione di ampio respiro e d’immaginazione storico-politica. Basterebbe, a puro titolo di esempio, richiamare alla mente il sistema di equilibrio intraeuropeo uscito dalla pace di Westfalia. L’intera configurazione dell’Europa come unione politica e culturale è evidentemente da ripensare dalle fondamenta e quindi ogni schematismo sin qui invalso deve essere abolito, in quanto ostacolo al dispiegamento della più vasta e complessa dimensione di civiltà storico-culturale. Per dirla con Dugin: «Il destino dell’Europa non è sull’altro lato dell’Atlantico. L’Europa deve quindi costituirsi come una civiltà distinta, libera e indipendente. Deve essere un’Europa europea, non americana e atlantista».
In vista della complessità del mondo multipolare che si prefigura nel futuro prossimo, è indispensabile una politica internazionale che si attenga alla “realtà effettuale della cosa”, senza lasciarsi distrarre da astrazioni, o speranze senza prospettiva.
Nonostante le molte sirene di allarme e le ben fondate motivazioni di preoccupazione, è il caso di cogliere che persiste una legge delle proporzioni che in qualche modo equilibra l’andamento caotico degli eventi mondiali. Nella strategia del caos messa in campo da svariati attori s’inserisce a un grado forse crescente un’incognita che è rappresentata dall’invisibile, da ciò che resta non detto e non visto e che contraddice ogni certezza e ogni automatismo. Se la quantità cresce, il ruolo della qualità e la sua possibilità di efficacia aumenta e si approfondisce in proporzione; se l’uniformità informe sembra estendersi ovunque, la biodiversità mantiene viva la sua complessità; se il sistema si riorganizza, nei vuoti di potere e controllo si aprono possibilità di operare contro di esso.
Ogni forma di determinismo storico sembra essere scardinata dalle fondamenta e si apre una dimensione ricca di pericoli e possibilità che al massimo grado di rischio e difficoltà conferma la verità contenuta nelle parole di Holderlin: «nel pericolo cresce anche ciò che salva».
Francesco Boco