Roma, 9 feb – «Arrivano come il destino, senza motivo, senza ragione, senza riguardo, senza pretesti, esistono come esiste il fulmine, troppo terribili, troppo convincenti, troppo “diversi” per essere anche soltanto odiati». Così, nella Genealogia della morale, Friedrich Nietzsche descriveva la “bestia bionda”, cioè i popoli conquistatori avidi di bottino e di gloria. La stessa impressione di potenza irresistibile, di quella bellezza feroce che seduce ed avvince, si può ricavare dalla serie televisiva Vikings, che è giunta alla terza stagione (trasmessa in questo periodo da Rai4) e di cui è in arrivo la quarta. La serie, in particolare, racconta le imprese della figura semileggendaria di Ragnar Lothbrok (impersonato da un convincente Travis Fimmel), re vichingo del IX secolo d.C., e del suo popolo di eroi razziatori.
Vikings non è nata negli Stati Uniti, bensì si tratta di una co-produzione tra Canada e Irlanda, ed è inoltre il frutto maturo dell’ispirazione di una penna genuinamente europea, quella del britannico Michael Hirst, già curatore della sceneggiatura del film Elizabeth e della serie I Tudors. Questo vuol dire che la ricostruzione storica è rigorosa e che la ormai noiosa pirotecnica dei combattimenti action lascia il posto a un affascinante realismo guerriero: niente duellanti che si affrontano in tripli salti con avvitamento carpiato, quindi. Le scene di combattimento rispondono anzi a un (neo)verismo che, appropriandosi delle moderne tecniche cinematografiche (altrimenti usate per meri tecnicismi sensazionalistici), ci restituiscono invece la rappresentazione soggiogante di un’umanità eroica che non è superomistica nel senso marvelliano (e deteriore) del termine, bensì niccianamente ed autenticamente sovrumanista.
Ma c’è qualcosa di più che rende Vikings un’impresa unica nel suo genere: la totale assenza di pregiudizi morali. Non esistono i “buoni” e i “cattivi”, non esiste alcun “bene” da contrappore ad alcun “male”. I popoli del nord (“normanni”, appunto) non sono selvaggi da redimere o da “educare”, né le popolazioni cristiane appaiono come vittime inermi o come una civilizzazione decadente. Hirst, invece, pone in scena due civiltà differenti che vivono secondo codici etici e religiosi differenti – due civiltà che si disprezzano reciprocamente e che spesso arrivano allo scontro, ma che sono capaci anche di incontri. Il personaggio di Athelstan (interpretato da un bravo George Blagden) svolge in questo senso un ruolo decisivo: monaco devoto a Cristo, verrà fatto prigioniero e tradotto a Kattegat, il villaggio di Ragnar. Qui imparerà gli usi e i costumi dei vichinghi, conoscerà i loro dèi e i loro culti, diventando addirittura uno di loro. Uomo tormentato e diviso, eternamente tra coloro che son sospesi, Athelstan è la figura che fa da tramite tra mondo vichingo e mondo cristiano: «Nella gentile pioggia che viene giù dal cielo, io sento il mio dio, ma nel tuono sento ancora Thor. Questa è la mia agonia».
La serie descrive con precisione filologica e potenza suggestiva la cultura guerriera, “pagana” ed eroica dei popoli norreni. Una civiltà che si fonda sul coraggio, l’ardimento e la ricerca di quella “gloria che non muore” che sarà cantata dagli aedi e che sola permette l’accesso al Valhalla. La morte onorevole in battaglia, infatti, è la massima aspirazione dei protagonisti della serie: devoti a Odino, il dio che sa apprezzare il valore, i vichinghi lo invocano nell’infuriare della lotta, nella speranza di sedere alla tavola degli dèi e degli eroi in attesa del Ragnarök, lo scontro finale tra le forze della luce e quelle del caos. Si tratta di una civiltà in cui anche le donne hanno licenza di combattere: in questo senso il personaggio di Lagertha, prima moglie di Ragnar, rappresenta uno dei più riusciti di Vikings. Non solo per la bellezza conturbante dell’attrice canadese Katheryn Winnick, che le ha prestato le sue fattezze, ma anche perché sintetizza al massimo grado un ideale femminile oramai sconosciuto all’Occidente egualitarista: madre premurosa, moglie sensuale, impavida guerriera.
La serie non lesina neanche su violenza, eros ed intrighi: i costumi sessuali della popolazione vichinga, più liberi rispetto alle voglie represse delle dame cristiane, così come la brutalità in battaglia e l’ambizione politica, vengono infatti rappresentati con dovizia di particolari. Ma fortunatamente siamo ben lontani da quelle forme di voyerismo patologico e di gusto splatter che caratterizzano la troppo osannata serie Trono di spade o dal “cospirazionismo” ossessivo di Roma, in cui la politica è il regno dell’intrigo e mai degli ideali (una concezione della politica, del resto, molto più anglosassone che non romana). Hirst affronta invece queste tematiche con l’eleganza e la delicatezza di chi non si abbandona a letture unilaterali o compulsive della realtà, rappresentando quindi l’umanità europea (tanto pagana quanto cristiana) in tutte le sue sfaccettature: coraggio e viltà, ambizione e disinteresse, onore e disonore, devozione ed empietà. A suo modo, Hirst ci restituisce una piccola enciclopedia della natura umana.
Probabilmente sarebbe troppo pretendere di rintracciare in Vikings messaggi politici o allegorie ulteriori. Tuttavia rimane possente la fascinazione per questa umanità guerriera che può solo generare un’adesione incondizionata o un assoluto rifiuto. In qualche maniera si tratta della narrazione e della rappresentazione di un’antica possibilità di esistenza per l’uomo europeo. Un’esistenza fatta di giovinezza e salute, debordante ed espansiva, che costantemente tende alla gloria e alla grandezza. Forse, più che una semplice serie televisiva, Vikings è per gli europei la più potente esortazione a fare i conti con sé stessi.
Valerio Benedetti
3 comments
Vikings spacca!
Bella serie televisiva, non ho perso una puntata dalla prima serie. Interessanti anche gli accostamenti tra sacralità pagana e cristianesimo, iimpersonati dal monaco che ha vissuto con i vichinghi e che dichiara di amare Odino e Cristo, anche quando torna a contatto col suo mondo cristiano. Senza dubbio migliore di tante serie che guardano solo all’azione e poco al mondo in cui agiscono i personaggi
Già, vero.