Roma, 6 feb – Quello della banda larga (ultralarga a voler essere precisi) è un piano annunciato ormai da un anno e che dovrebbe portare l’Italia, entro il 2020, a fornire connessioni con velocità pari ad almeno 30 mega a tutta la popolazione, con almeno il 50% dei cittadini in grado di raggiungere i 100 mega. Ce lo chiede l’Europa ed è proprio il caso di dire che anche l’orologio rotto due volte al giorno segna l’ora giusta. Soprattutto se pensiamo che oggi la velocità media di download da postazione fissa in Italia è di circa 3 mega, quando si ha a disposizione una connessione ovviamente. Perché sono ancora moltissimi i comuni, nelle aree rurali e montane, che a malapena possono aprire una casella di posta elettronica. È il cosidetto “digital divide”, colpa di condizioni orografiche e di distribuzione della popolazione del tutto peculiari nel panorama europeo, ma soprattutto della mancanza di una benché minima politica industriale in un campo strategico quale è quello delle telecomunicazioni, dove pure eravamo leader ormai diversi decenni fa, con Telecom Italia (prima che i capitani coraggiosi di Prodi e Dalema la affondassero sotto miliardi di debiti) e Olivetti, solo per citarne alcune. Ed è così che ne paghiamo lo scotto non solo in termini di pil e occupazione ma anche a livello di competitività e capitale umano, in tutti i settori produttivi.
Il piano del governo varato lo scorso febbraio prevede uno stanziamento di 7 miliardi, in parte provenienti da fondi comunitari, con cui si sarebbe dovuto dare il via a un grosso piano infrastrutturale per portare la fibra dalle centrali fino agli armadi di strada (Fiber to the cabinet o FTTC) o addirittura all’ingresso dei condomini e delle case (FTTBuilding o FTTHome). È evidente come un programma del genere richieda un lasso di tempo molto più lungo degli scarsi quattro anni che ci separano dal 2020, così come di risorse economiche infinitamente maggiori, che nella mente del governo e della Commisione europea dovrebbero arrivare dagli investitori privati. Il risultato è che attualmente solo un’unità abitativa su dieci dispone di una connessione di tipo FTTH, la media europea è di una su cinque, e solo il 30%, rispetto alla media europea del 70%, è dotata di infrastrutture FTTN (dove almeno la prima parte del collegamento è in fibra ottica, il resto è rame). Con l’eccezione di pochi comuni del nord, fra cui spicca Milano, neanche nelle grandi città, dove la concentrazione delle utenze potrebbe rendere maggiormente profittevole l’investimento, sembrano esserci significativi passi avanti verso gli obiettivi comunitari. E così si rinnovano, senza prendere il via, le intese per la posa della fibra fra i grandi operatori e Metroweb, la società partecipata dalla Cassa Depositi e Prestiti attraverso il Fondo Strategico.
Così come si rinnovano, senza perfezionarsi, i rumors sull’acquisizione della società della fibra da parte di Tim. Di recente è entrata in partita anche la neonata Enel Open Fiber, società di Enel che promette enormi risparmi nella costruzione della rete, sfruttando le tratte interrate e aeree già utilizzate per la rete elettrica. Un contributo non da poco visto che proprio le attività di posa rappresentano circa il 70% della spesa totale per l’installazione delle nuove reti.
Il quadro è alquanto caotico, tutti pronti a prendere il treno dei finanziamenti pubblici ma nessuno che si muove. Ed è anche comprensibile: il contesto regolamentare incerto rende impossibile alle aziende private l’effettivo via libera agli investimenti, sopratutto in un quadro economico del tutto sfavorevole sia per ovvi motivi contingenti che storici. Che i privati abbiano risorse da investire è tutto da vedere, la liberalizzazione del settore ha generato una guerra al ribasso dei prezzi che non ha garantito il flusso di ricavi adeguato a innovare, come tutto da vedere è che gli utenti siano disposti a pagare una cifra doppia rispetto la normale adsl per avere una connessione a 30 o 100 mega, quando per vedere un film in streaming hd ne bastano 5 (reali e non nominali).
Si muove solo il pubblico: Infratel, la società controllata dal Ministero dello Sviluppo Economico, è pronta a far cablare 700 piccoli comuni dove sicuramente i privati non arriverebbero: “partiremo i primi giorni di febbraio in otto regioni, utilizzando ancora risorse della vecchia programmazione” ha di recente dichiarato il sottosegretario alle comunicazioni Giacomelli. Ora, al di là della politica degli annunci tanto cara al governo (entro febbraio non partirà proprio nulla), il dato è che senza un forte dirigismo pubblico sulla questione siamo destinati a fallire anche quest’obiettivo. Partiamo infatti in ritardo, in un contesto macroeconomico stagnante e per giunta in una situazione oggettivamente svantaggiata in termini infrastrutturali. Purtroppo, dopo aver liberalizzato e svenduto con una solerzia da primi della classe i nostri asset più importanti e senza la minima volontà di forzare il dogma del libero mercato, il fallimento appare l’unico scenario possibile.
Armando Haller