Benito Mussolini che innalza la spada dell’Islam. Enrico Mattei a colloquio con Nasser e i capi arabi. Evocare queste due celebri immagini, dietro i chiari sfondi propagandistici, ha ancora oggi mille significati. In primis, quello di evidenziare le tendenze vitali della politica estera italiana. Linee guida che dall’Unità ad oggi Gran Bretagna e Usa hanno sempre cercato di deviare e soffocare, condannando il nostro paese a recitare il ruolo di comparsa nella storia.
È stata la particolare posizione geografica a favorire da sempre il ruolo del nostro paese quale ponte tra diverse culture, tra Roma, l’Africa e il Medio Oriente, oltre che crocevia commerciale e perno del Mediterraneo. Negli anni ’30 il fascismo riuscì a far fruttare quest’eredità storica, moltiplicando gli sforzi e le iniziative su diversi livelli. La Fiera del Levante, l’Istituto Studi Medio Orientali (ISMEO), i Convegni degli studenti asiatici a Roma (nel ’33 e nel ’34) furono alcuni tra i più significativi esempi. Senza menzionare i contatti che intrattennero i vertici fascisti con diversi capi arabi, come il Gran Muftì di Gerusalemme. Questa tendenza “terzomondista”, in chiaro contrasto col dominio imperiale britannico, ebbe tra i suoi paesi privilegiati l’India, di cui Mussolini e D’Annunzio già scrissero con interesse nei primissimi anni ’20. Chandra Bose e Ghandi (la cui biografia uscì nel nostro paese con la prefazione di Giovanni Gentile) visitarono l’Italia esprimendo parole lusinghiere, a testimonianza di un rapporto che seppe andare oltre i comuni interessi anti-inglesi. Un caso particolare furono le trasmissioni di “Radio Bari” sia in lingua italiana che in arabo (a beneficio delle maggiori capitali mediorientali), in una redazione che vide tra i suoi protagonisti nientemeno che Habib Bourguiba, successivamente ospitato in Italia direttamente dal PNF, alla presenza di un giovane studente: Aldo Moro. Tutto ciò mentre la rivista Nation Arabe e il Giornale d’Oriente si erigevano a esempi degli sforzi culturali per l’avvicinamento tra fascismo e mondo arabo-islamico. Un rapporto intenso e non facile, nel quale la guerra d’Etiopia e gli Accordi di Pasqua tra Italia e Gran Bretagna (’38), furono i maggiori elementi di frizione.
Gli accordi con Londra ebbero valore poco più che simbolico: il conflitto con la “perfida Albione” si avvicinava ogni giorno di più. L’Impero britannico, che copriva il 24% delle terre emerse del globo, mal digeriva le ambizioni di Roma sul Mare Nostrum: le sanzioni economiche e il blocco navale furono due sfide che spianarono la strada al secondo conflitto[1]. Dopo poco tempo le sconfitte e i crescenti dolori della guerra contribuirono a soffocare il senso di comunità e d’orgoglio italiani: interi settori del paese abbandonarono letteralmente la patria di fronte allo straniero, la grande industria e una parte consistente delle forze armate per primi. Una vasta letteratura si è occupata delle loro mancanze e dei loro egoismi: Navi e poltrone di Antonino Trizzino già negli anni ’50 denunciò le negligenze dell’Aeronautica e soprattutto della Marina, accusata di codardia, spionaggio e tradimento in molti suoi protagonisti. Tra questi, l’ammiraglio Franco Maugeri, che non a caso arrivò a scrivere nelle sue memorie: «L’inverno del 1942-43 trovò molti di noi che speravano in una Italia libera di fronte a questa dura, amara, dolorosa verità: non ci saremmo potuti liberare delle nostre catene se l’Asse fosse stata vittoriosa. Più uno amava il proprio Paese, più doveva pregare per la sua sconfitta sul campo di battaglia». Studiosi come Piero Baroni (I condottieri della disfatta e Una Patria venduta i suoi atti d’accusa contro il complesso militare-industriale italiano) e Filippo Giannini (Il sangue e l’oro) sono altri nomi fondamentali per capire questi aspetti del passato.
Un Paese che aveva saputo attirare l’interesse mondiale grazie all’esperimento sociale del corporativismo[2] sceglieva la strada della subordinazione politica e culturale. Ulteriore nota negativa: l’intesa ideologica e strategica di primo piano maturata con i paesi che subivano il colonialismo inglese non fu sfruttata appieno (sebbene sia stata perseguita anche durante i 600 giorni della RSI) e sembrò morire con la vittoria degli Alleati. Fortunatamente non fu totalmente così. Nel dopoguerra la genialità di Enrico Mattei permise di salvare l’AGIP e di farne l’alfiere di una politica energetica indipendente, attirandosi le ire delle grandi compagnie petrolifere anglo-americane e delle diplomazie dei rispettivi paesi. Non solo: spiragli di una politica “terza forzista” si intravidero nelle parole e negli atti di alcuni protagonisti dell’epoca come Giovanni Gronchi. Alla fine degli anni ’40 in Siria e Palestina l’Italia fornì un sostegno non indifferente attraverso armi e mezzi militari, fino a quando nel 1956 il nostro paese si ritrovò ad essere uno dei pochi riferimenti per l’Egitto e il mondo arabo nel pieno della crisi di Suez (e torna alla mente la foto di Mattei con Nasser).
1956: lo stesso anno dell’indipendenza della Tunisia grazie a un leader “svezzatosi” nella penisola: Bourguiba. La politica estera del nostro paese, bloccata nei canali ufficiali dalle potenze anglosassoni, aveva trovato la sua via d’espressione nell’ENI (sorto dall’AGIP) che si permetteva di avere rappresentanti diretti presso movimenti quali il Fronte Nazionale Algerino, in pieno fervore indipendentista. La misura era colma per le potenze anglosassoni, che nel 1962 ebbero la loro rivincita grazie all’“incidente” capitato a Mattei, che si era inoltre pesantemente scontrato con Israele, come sottolineato dagli studi del professor Claudio Moffa. Da allora, nel mezzo di una classe politica legata a doppio filo alla grande potenza statunitense, solo alcuni esponenti d’area democristiana e socialista tentarono di portare avanti istanze politiche di questo genere, tra incertezze e difficoltà. Moro (il giovane studente ai tempi del fascismo) e Bettino Craxi furono i più eclatanti esempi in questo senso, ma come per Mattei le “circostanze avverse” scrissero un finale tragico. Dietro la fine del PSI e della Prima repubblica non pochi analisti (come l’ex Ministro Rino Formica e il diplomatico Sergio Romano) hanno descritto le ingerenze della finanza anglosassone, che approfittò dello scompaginamento politico per mettere le mani sul patrimonio pubblico industriale italiano. Ci riferiamo ad aziende e istituzioni come l’IRI che, con mille difetti, avevano consentito al paese di primeggiare sul piano internazionale dando vita a numerose eccellenze produttive. Francesco Cossiga e Michele Rallo denunciarono apertamente l’incontro sul panfilo Britannia in cui gli esponenti della City discussero di privatizzazioni con i massimi economisti e banchieri del paese come Romano Prodi e Mario Draghi. Un “colpo di stato dolce” secondo Giulio Tremonti[3], di cui la Politica fu la principale vittima. Proprio dagli anni l’90 si è accentuato l’avvicinamento al modello americano da parte del “nuovo” mondo politico: pensiamo alla generale conversione al liberismo da destra a sinistra (a detrimento dello stato sociale) e all’ex PCI da tempo plasmato sul modello dei democratici a stelle e strisce, proprio quel partito “risparmiato” dalla magistratura nelle inchieste di Mani Pulite. La deriva finanziaria ha quindi subito un’accelerazione di cui ancora non si intravede la fine, nonostante i drammi seguenti alla crisi del 2008. Uno dei primi esempi del dominio del mondo economico è BlackRock, braccio finanziario degli USA nel nostro Paese, dove gestisce grandi e piccole partecipazioni nelle maggiori realtà imprenditoriali e condiziona la classe dirigente grazie ad un patrimonio senza pari. La sua strategia si muove soprattutto su due binari: fungere da “cane da guardia” dell’espansionismo cinese e destabilizzare i governi scomodi (Berlusconi 2011)[4].
Non è finita qui. In nome dell’alleanza atlantica e della «parte giusta della storia» (parole di Obama) l’Italia ha continuato sulla strada dei clamorosi autogol: la guerra a Gheddafi e le sanzioni alla Russia rappresentano in questo senso due atti palesemente contrari ai nostri interessi e al minimo buon senso, a favore dell’Inghilterra in un caso e degli Usa nell’altro. Le stesse nazioni che con una condotta ondivaga nei confronti di Arabia Saudita, Qatar e Turchia hanno consentito il proliferare dell’ISIS e del fondamentalismo islamico. Le azioni italiane risultano quindi ben lontane dagli scatti di orgoglio del passato, come la proiezione mediterranea promossa da Crispi[5] o la crisi di Sigonella gestita da Craxi. Renzi al contrario è stato descritto dalla stampa americana come «un festoso cagnolino» in occasione della visita di Obama a Roma, mentre non oppone la minima resistenza al TTIP, il trattato commerciale dietro il quale potrebbe nascondersi la definitiva vittoria americana sulle aspirazioni europee[6]. Non resta quindi che chiedersi quanto ancora resti del patrimonio culturale e della sovranità italiana tra le pieghe dei governi tecnici e dei partiti-azienda dei nostri giorni. Nella risposta, purtroppo, sta anche una larga fetta del nostro futuro.
Agostino Nasti
[1] Le ragioni italiane e le cause profonde del conflitto furono analizzate con dovizia di particolari, al netto delle considerazioni propagandistiche, da una delle riviste più interessanti del Ventennio: «Geopolitica». Promossa da Giuseppe Bottai e da «Critica Fascista» e diretta dal giovane Ernesto Massi, elaborò delle analisi e delle critiche pungenti verso il soffocamento dell’Italia e del suo spazio vitale mediterraneo da parte della talassocrazia inglese (ricordiamo ad esempio che perfino Mahan individuò Malta come territorio legittimamente italiano). Sul tema cfr. Giulio Sinibaldi, La geopolitica in Italia (1939–1942), Libreria Universitaria, Padova 2010.
[2] Cfr. Anthony Galatoli Landi, Mussolini e la rivoluzione sociale, Istituto Studi Corporativi, Roma 1983; Ennio Caretto, Quando l’America si innamorò di Mussolini, Editori Internazionali Riuniti, Urbino 2014; Francesco Carlesi, Rivoluzione sociale. «Critica Fascista» e il corporativismo, Aga Editrice, Milano 2015.
[3] Cfr. G. Tremonti, Bugie e Verità. La ragione dei popoli, Mondadori, Milano 2014.
[4] Cfr. Germano Dottori, BlackRock. Il moloch della finanza globale, Limes, n. 2/2015, pp. 59–64.
[5] Cfr. Aldo G. Ricci – Luisa Montevecchi (a cura di), Francesco Crispi. Costruire lo Stato per dare forma alla Nazione, Archivio Centrale dello Stato, Roma 2009.
[6] Per approfondire cfr. F. Carlesi, Usa. I Trattati commerciali come arma geopolitica, «Intellettuale Dissidente», 31 ottobre 2014