Taranto, 6 gen – Dopo anni fra tribunali, sequestri, arresti, scandali che hanno coinvolto buona parte dell’establishment locale pugliese, amministrazione straordinaria, crisi di produzione e di liquidità, prestiti ponte per evitare la chiusura, lo Stato getta la spugna. Da ieri, un’Ilva risanata ma non troppo è ufficialmente in vendita. Con la prospettiva che a subentrare ai pessimi Riva (e alla non tanto migliore, se non altro per incosistenza, gestione pubblica) saranno quasi sicuramente soggetti stranieri.
La celerità del governo nell’avviare le procedure di cessione è più che sospetta. Non più tardi di due settimane fa l’Unione Europea aveva avviato una procedura d’infrazione: nel mirino in sostegno pubblico all’Ilva, per il quale si ipotizzava la fattispecie degli aiuti di Stato. “Che qualcuno amerebbe veder chiudere Taranto, è cosa nota: ma non lo accetteremo. Per l’Italia è finito il tempo della paura: rispetto per tutti ma paura di nessuno”, aveva tuonato Renzi. Il quale però ha poi accelerato sulla vendita. Se la matematica non è un’opinione, uno più uno fa due.
Oggetto della cessione saranno sette società legate all’Ilva, compreso lo stesso siderurgico tarantino. C’è tempo fino al 10 febbraio per le manifestazioni d’interesse, con il ministero dello Sviluppo che preme per evitare la soluzione “spezzatino”: si punta quindi, almeno questo, alla vendita in blocco per conservare l’unità produttiva. Il tentativo di ormai due anni fa, guidato dall’allora commissario Piero Gnudi, aveva visto il gruppo lussemburghese Arcelor Mittal (con Marcegaglia a fare da appoggio) gettare la spugna. Non è detto che a questo giro si raggiunga il risultato, ma intanto gli italiani di Duferco – del presidente di Federacciai Antonio Gozzi – hanno già fatto sapere che non saranno della partita. Comunque vada, è estremamente probabile che la proprietà finisca dunque oltreconfine. Dicendo in sostanza addio all’acciaio – e ad una leva essenziale di politica industriale – nazionale.
Filippo Burla