Harare, Zimbabwe, 24 dic – Da ora la moneta cinese, lo yuan, assume corso legale nella repubblica dello Zimbabwe, Africa meridionale. Il paese, retto dal 91enne dittatore Robert Mugabe, è precipitato nella povertà più estrema fin dalla decisione di questi, negli anni novanta del secolo scorso, di espropriare le terre ai bianchi, sfociata in una tragica inefficienza e in una iperinflazione da barzelletta, alimentata anche dalle spese militari: la banconota locale da centomila miliardi non era sufficiente neppure per un biglietto del bus.
Abbandonata la propria divisa, fu scelto quindi di dare corso legale ad alcune valute straniere, in particolare il rand sudafricano e il dollaro americano. E ora, appunto, lo yuan cinese. A fronte della quale misura, la Cina ha anche cancellato al paese africano un debito dell’ordine di 40 milioni di dollari.
Questo evento apparentemente marginale si inquadra in realtà in un disegno assai più vasto, sostenuto proprio dalla Cina, forte della deterrenza militare russa, che vede coinvolti molti paesi del mondo – Brics in testa – e prevede il progressivo sganciamento dal sistema dei pagamenti degli scambi commerciali e degli investimenti industriali e infrastrutturali in dollari americani, spesso a favore delle rispettive valute sovrane negli scambi bilaterali e sullo sfondo una prevalenza dello yuan per ovvie ragioni di dimensioni dell’economia cinese rispetto alle altre.
Nella storia moderna, le valute di diversi imperi hanno goduto dello status di valuta di riserva: dal Portogallo alla Spagna, dall’Olanda all’Inghilterra, fino agli Stati Uniti il cui dollaro, all’apice della propria egemonia globale intorno all’ultimo volgere del secolo, costituiva oltre il 70% delle riserve globali di valuta.
Lo status privilegiato di una valuta costituisce un immenso vantaggio per il paese titolato ad emetterla, rendendolo in grado di crearla letteralmente dal nulla – che equivale alla creazione di ricchezza reale senza fondamento economico – grazie ai volumi praticamente infiniti di domanda della stessa divisa in tutto il resto del mondo, quindi di non soffrire degli effetti inflattivi o perfino iper-inflattivi cui è sempre andata incontro ogni altra nazione la cui banca centrale abbia ecceduto nella produzione di liquidità. Lo stesso euro ha per un certo periodo goduto di uno status simile seppure di grado inferiore.
La concorrenza della relativa deindustrializzazione americana e del collasso simultaneo sia degli scambi commerciali sia del prezzo delle materie prime, petrolio in testa – cosa che ha investito direttamente la domanda di dollari e minato alla base il cosiddetto sistema del petrodollaro – hanno tuttavia accelerato negli ultimi anni, e particolarmente nel biennio più recente, l’abbandono progressivo del dollaro Usa – che si avvia a scendere verso il 50% in quanto a quota delle riserve globali – attraverso la riduzione generalizzata della domanda di valuta estera, della vendita a tratti compulsiva dei titoli del tesoro statunitense (Cina, Russia e Arabia Saudita in testa), e infine – come si è scritto – dell’affermazione degli scambi in altre valute.
Tutto questo nonostante la svalutazione competitiva di numerose valute, a partire proprio dallo yuan cinese, che, pur rallentando la dismissione della divisa americana, ha ulteriormente marginalizzato l’economia reale degli Stati Uniti, ponendo le basi per una più solida transizione e stimolando anche l’abbandono dell’agganciamento al dollaro da parte di economie importanti come quella saudita.
Tanto che – è notizia di questi giorni – molti paesi africani stanno letteralmente rimanendo a corto di dollari, evento che di fatto esclude dai mercati locali una grande quantità di prodotti made in Usa.
La Cina, allora, è stata semplicemente tempestiva a inserirsi in questo quadro di transizione, imponendo la propria moneta quale soluzione alternativa. Non solo in Africa: basti pensare alla vastità delle adesioni alla Banca asiatica per gli investimenti e le infrastrutture (Aiib) promossa e guidata da Pechino, estesa a numerosi paesi europei oltre che ai Brics e molti altri, nonché alla recente decisione del Fondo monetario internazionale (Fmi) di includere dal prossimo anno la divisa cinese nel paniere delle valute di riferimento, che possono godere dello status di valuta di riserva.
Un complesso di sviluppi, questo, che appare almeno momentaneamente scontrarsi con la strenua resistenza americana in nome di una dottrina che vuole evitare l’emergenza di nuove potenze dotate di proiezione globale, motivata dalla preoccupazione delle élite super-ricche di perdere la capacità d’intervento politico e soprattutto militare offerta da Washington e diretta contro i paesi che per vocazione sociale potrebbero indurre un’inversione nella distribuzione della ricchezza e nella tendenza alla distruzione delle sovranità e delle identità nazionali. In altre parole, la palla sta ora nel campo cinese e russo: se questi decideranno di perseguire il benessere dei popoli o almeno di difendere la sovranità nazionale in patria come all’estero, lo scontro sarà inevitabile ma almeno potrà aprirsi un nuovo spettro di possibilità, altrimenti le stesse élite senza patria potranno facilmente e in tutta sicurezza adattare le proprie sconfinate ricchezze a un paniere di valute in cui il dollaro non sarà più protagonista.
I segnali da Mosca e Pechino sono in realtà più ambigui di quanto i molti tifosi della transizione multi-polare vogliano riconoscere, né la crisi economica globale senza apparenti vie d’uscita contribuisce alla chiarezza delle intenzioni: il rischio che le potenze emergenti si accontentino di una fetta della torta, sempre più magra per tutti eccetto che per l’1% o meno delle popolazioni, rimane un esito tanto probabile quanto gli altri.
Francesco Meneguzzo