Parigi, 13 dic – Immaginiamo un condominio con due famiglie, una ricca e l’altra povera: ambedue concordano che il tetto sta per crollare. Per sistemarlo, stipulano un accordo: la famiglia ricca promette di provvedere alla sua parte di tetto almeno quel tanto che dovrebbe bastare a metterlo in sicurezza. Quella povera non promette niente, ma la famiglia ricca promette di finanziarla per provvedere. Dopo di che, si impegnano a rivedersi dopo cinque anni, a meno che una delle due si sia ritirata volontariamente dall’accordo dopo tre anni dalla stipula. In caso di mancato rispetto delle promesse, nessuna delle due famiglie sarà sanzionata.
Potrebbe mai funzionare un accordo del genere? Ovviamente no.
Ecco, in estrema sintesi, il grande risultato celebrato in pompa magna a Parigi al termine della Cop21 – la maratona negoziale che il 12 dicembre ha portato alla stipula dell’accordo sul contenimento dei cambiamenti climatici sottoscritto da 198 Paesi del mondo, in pratica da tutti.
I contenuti dell’accordo sono efficacemente sintetizzati dalla rivista specializzata QualEnergia, che nello articolo ne mette a disposizione anche il testo finale:
- Obiettivo di fermare il riscaldamento “ben al di sotto dei 2 °C” dai livelli preindustriali, con volontà di contenerlo entro gli 1,5 °C (oggi siamo a circa 1°C in più rispetto a 150 anni fa, ndr).
- Impegni nazionali rivisti ogni cinque anni, ma solo per renderli più ambiziosi.
- Punto sui progressi fatti sempre ogni cinque anni.
- Compensazioni economiche per aiutare in Paesi in via di sviluppo in mitigazione e adattamento: 100 miliardi di dollari all’anno come base di partenza.
Esaltato dai partecipanti in rappresentanza delle parti in causa, dai media e perfino dalla maggior parte degli ambientalisti, e sbandierato dalla presidenza americana come un grande successo del secondo mandato di Barack Obama, in realtà il risultato è aria fritta, vuoto pneumatico.
Qui bisogna intendersi: se il consenso di tutti i partecipanti, rappresentanti della grande maggioranza della popolazione mondiale, concordano che i cambiamenti climatici siano una realtà, replicando il consenso della comunità scientifica, allora non ha alcun senso un accordo che non prevede alcun termine vincolante, né alcuna sanzione, con in più la possibilità del ritiro di qualsiasi parte passati tre anni dalla stipula (mentre le prime azioni sono rimandate al 2020), sempre senza alcuna penalità.
Del resto, qualsiasi altro esito sarebbe stato virtualmente impossibile.
Da una parte, i Paesi produttori di idrocarburi, a partire dall’Arabia Saudita, che punta a mettere le mani anche sul petrolio iracheno (e Siriano, per quello che ne rimane) e che, insieme al Qatar (e agli stessi Stati Uniti) fa letteralmente fuoco e fiamme per realizzare il mega-gasdotto verso l’Europa osteggiato dal legittimo governo siriano. La stessa Eni ritiene che la dismissione obbligatoria delle fonti fossili non possa essere perseguita, suggerendo di puntare sul gas naturale come fonte di transizione, affiancato dalle rinnovabili.
Dall’altra, i paesi cosiddetti emergenti, Cina inclusa con l’accompagnamento dell’India, che da un lato si aspettano i primi passi da parte dei paesi ricchi, dall’altro non accettano vincoli legali sulle proprie emissioni di gas a effetto serra e con qualche ragione, dal momento che questi sono stati oggetto di gigantesche delocalizzazioni industriali proprio dalla parte affluente del mondo.
Significativo il caso dell’India, terzo in classifica (dopo Cina e Usa) per le emissioni di anidride carbonica, che dipende dal carbone per la maggior parte del suo fabbisogno energetico: sebbene recentemente impegnata nello sviluppo dell’energia solare ed eolica, secondo il suo rappresentante Ajay Mathur l’economia del paese è ancora troppo piccola e la sua gente troppo povera per cessare l’uso delle fonti fossili in tempi prevedibili, per cui “è problematico per noi assumere impegni vincolanti a questo punto”, specificando che “l’intera prosperità del mondo è stata costruita sull’energia a basso costo. E noi improvvisamente dovremmo essere costretti a passare a energia a costo maggiore. Questo non è accettabile”.
Difficilmente il concetto potrebbe essere espresso più chiaramente, e l’esito della costosissima kermesse parigina ne riflette pienamente le conseguenze.
D’altra parte, se sussiste realmente una preoccupazione condivisa per cambiamenti climatici pericolosi, l’unica strada sarebbe quella individuata dall’Italia negli anni passati: lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili, il nostro Paese detenendo il primato mondiale di elettricità fotovoltaica pro-capite, nel solco di una tendenza comune ad altre nazioni ed aree geografiche, sebbene con velocità di penetrazione assai differenziate. Eventualmente recuperando anche l’energia nucleare che, sebbene in declino da anni in quanto a produzione netta globale, potrebbe rivelarsi attrattiva in un contesto di basse emissioni di carbonio.
Il tutto, al prezzo di giganteschi investimenti anticipati, dal momento che tutte queste fonti richiedono grandissimi capitali per la realizzazione degli impianti a fronte di ridotti costi di conduzione, nonché al prezzo della sottrazione di ingenti quantità di idrocarburi dalle normali attività economiche per utilizzarli ai fini della costruzione degli stessi impianti.
Evidentemente e al di là dello show a uso e consumo della stampa e degli elettori, praticamente nessun paese al mondo è pronto a impegnarsi in modo vincolante lungo questa direzione, tanto più che i segnali di una ulteriore pesante recessione globale non hanno fatto che accumularsi negli ultimi mesi e potrebbero esplodere con il probabile prossimo rialzo dei tassi negli Stati Uniti. A fronte di questa minaccia – esauriti gli strumenti convenzionali da parte delle banche centrali – non rimarrebbe che “gettare i soldi dall’elicottero”, come si dice, cioè fornirli direttamente e quasi senza intermediazioni a cittadini e imprese, nell’estrema e improbabile speranza di riattivare consumi ed economia.
Oppure la soluzione più praticata nella storia a fronte di depressioni apparentemente insuperabili, cioè la guerra.
In nessuno dei due casi rimarrebbero i capitali necessari per fronteggiare i cambiamenti climatici, né tanto meno sarebbe pensabile di riprendere i soldi regalati ai cittadini attraverso una tassazione specifica. E questo è tutto.
Francesco Meneguzzo