Roma, 26 ott – La legge sulla cittadinanza del regno d’Italia, risalente al 1865 (e il cui impianto sarebbe stato recepito in pieno anche dalla riforma giolittiana attuata con la legge n. 555 del 13 giugno 1912), è il coerente risultato del processo risorgimentale. Se il Risorgimento ha dato unità politica e forma statuale alla nazione italiana, risulta infatti conseguente la scelta di ‘incardinare’ la cittadinanza sul principio di nazionalità, e quindi riconoscerla, tranne rari casi, rigidamente regolamentati, di naturalizzazione, ai soli individui di nazionalità italiana e ai loro discendenti.
A tal proposito, credo sia importante anche ricordare, certo per sommi capi, il percorso teorico-culturale teso a chiarire sempre meglio il concetto di nazione, e che ha rappresentato, per così dire, la base dottrinaria su cui ha poi finito per poggiare il lavoro del legislatore.
Non a caso, scorrendo le pagine di una importante raccolta documentaria edita qualche anno fa, emerge – il riferimento è a Mazzini – una concezione della nazione imperniata su di “una appartenenza ascrittiva (cioè dovuta a fattori che prescindono dalla scelta del singolo individuo); l’essenza biologica che connota l’appartenenza ad una stessa comunità (la medesima fisionomia); i caratteri culturali (la lingua) e naturali (il suolo) che le sono propri”[1], su cui poi innestare l’azione propriamente politica del voler-essere una nazione.
Ma sempre dalla stessa antologia vien fuori che la concezione mazziniana era largamente condivisa ad esempio da Manzoni (p. 141: “una [l’Italia] d’arme, di lingua, d’altare /Di memorie, di sangue e di cor”), Gioberti (p. 148: “v’ha bensì un’Italia e una stirpe italiana congiunta di sangue, di religione, di lingua scritta ed illustre”) e Francesco De Sanctis (p. 368: “saremo una nazione di ventisei milioni di uomini, una di lingua, di religione, di memorie, di coltura, d’ingegno e di tipo”).
Altrettanto significativa la voce “Nazione” data nel 1869 da Tommaseo e Bellini nel loro Dizionario: “Nazione, Schiatta d’uomini avente la medesima origine e parlante la lingua medesima. Unione di gente in vincolo di tradizioni civili, morali, intellettuali. Società di famiglie in vincolo comune e costante di discendenza, di tradizioni, d’affetti, di linguaggio, d’istituzione, di fatti, d’abitazione: massime d’abitazione e d’affetti. Quella è più propriam. Nazione, ove gli uomini hanno in comune la schiatta, la lingua, le leggi, e la potenza e la volontà d’eseguirle”[2].
A chiusura di questa sommaria, ma indicativa, ricostruzione, non si possono non citare le parole di Pasquale Stanislao Mancini, giurista e uomo politico al quale in buona sostanza si deve la stessa legge sulla cittadinanza dell’Italia post-unitaria.
Già nel 1851, all’interno del corso di Diritto internazionale e marittimo, tenuto presso la Regia Università di Torino, Mancini individuava le caratteristiche salienti del principio di nazionalità: “la regione, la razza, la lingua, le costumanze, la storia, le leggi, le religioni”. E quando si tratterà di discutere in parlamento le norme sulla cittadinanza, Mancini ribadirà con forza l’assoluta centralità del principio di nazionalità, affermando che “l’uomo nasce membro di una famiglia, e la nazione essendo un aggregato d famiglie, egli è cittadino di quella nazione a cui appartengono il padre suo, la sua famiglia. Il luogo dove si nasce, quello dove si ha domicilio o dimora, non hanno valore né significato. E sia lode al novello Codice, il quale ha reso omaggio a questo grande principio pronunciando essere italiano chi nasce, in qualunque luogo, da padre italiano, cioè di famiglia italiana”[3].
Giovanni Damiano
[1] A.M. Banti (a cura di), Nel nome dell’Italia. Il Risorgimento nelle testimonianze, nei documenti e nelle immagini, Roma-Bari 2010, pp. 143-144. In un testo successivo, insistendo sulla crucialità, per Mazzini, della nascita come evento anche politicamente rilevante, in quanto colloca l’individuo all’interno della sua comunità nazionale e dona senso ai suoi legami con le generazioni passate, presenti e future di cui quella stessa comunità è composta, Banti arriva addirittura a parlare, sempre a proposito di Mazzini, di una “concezione biopolitica della nazione” (A.M. Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Bari-Roma 2011, p. 17).
[2] Citata in A.M. Banti, La nazione del Risorgimento, Torino 2000, p. 166.
[3] Entrambe le citazioni in A.M. Banti, La nazione del Risorgimento, cit., rispettivamente pp. 163 e 169.
2 comments
Note quantomai fondamentali per qualsiasi partito o movimento che aspiri a fregiarsi dell’attributo “nazionalista”. Chi non pone la RAZZA al centro del concetto di nazione è un finto nazionalista, utile servo del mondialismo.
Nota1488 purtroppo non tutti studiano o meglio si studia sui libri di testo …e quindi non di testa
A buon intenditore…..