Roma, 25 ott – Secondo il giornalista economico del Sole 24 Ore Stefano Natoli, sulla base della quinta edizione del Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione “Stranieri in Italia, attori dello sviluppo”, presentato alcuni giorni fa a Roma dalla Fondazione Leone Moressa, la ricchezza prodotta nel 2014 dai 2,3 milioni di occupati stranieri, su un totale di oltre cinque milioni ormai residenti in Italia (8,2% della popolazione complessiva), ammonterebbe a 125 miliardi di euro, cioè all’8,6% del Pil nazionale, con redditi dichiarati per 45,6 miliardi e una Irpef netta versata di 6,8 miliardi.
Tanto da fargli abbracciare la conclusione del sottosegretario al Lavoro e alle Politiche sociali, Franca Biondelli: “Continuare a fare demagogia e populismo sull’immigrazione è profondamente sbagliato. È necessaria più integrazione e più inclusione. Integrazione e inclusione vengono anche dal lavoro”.
Naturalmente, un ragionamento di questo tipo non può filare già a rigor di logica, perché in un paese con la disoccupazione a doppia cifra e la povertà ormai endemica e crescente è evidente che la quota del mercato del lavoro occupata dagli stranieri è semplicemente sottratta agli Italiani, per di più a scapito non solo degli esclusi dal lavoro ma – attraverso la compressione salariale – di tutti quanti i lavoratori non di élite. Non somma zero, quindi, ma negativa.
Né può quindi reggere il fondamento demografico proposto dalla suddetta Fondazione e dallo stesso Natoli, secondo cui il presunto squilibrio finanziario e pensionistico indotto dalla depressione demografica interna – che è indubbia ma comune alla gran parte dei paesi europei, Germania in testa – possa essere colmato affiancando alla forza lavoro nativa quella allogena.
S’intende, qui, che il contenimento delle retribuzioni, all’origine della stagnazione della domanda interna – concausa della divergenza al ribasso delle performance economiche italiane rispetto ai più diretti competitor europei – è dovuto in larga parte alle scarse o inesistenti competenze professionali, per non dire del bagaglio formativo, della grandissima parte degli stranieri arrivati in Italia negli ultimi 20 anni.
Giova ricordare che su queste colonne sono stati esaustivamente trattati sia il carattere specificamente deprimente della recente immigrazione in Italia, comparata con quelle del passato in altri paesi, sia l’attribuzione quantitativa della ricchezza perduta a causa dell’ingresso di masse di persone – lavoratori nei casi migliori – di bassissimo livello culturale e professionale, oltre che completamente estranei, e per lo più ignari, rispetto al patrimonio valoriale (e linguistico) italiano ed europeo.
Stimammo allora – mai smentiti – in circa duemila euro pro-capite, qualcosa come circa cento miliardi all’anno, la perdita di prodotto interno lordo dovuta specificamente alla politica immigratoria condotta dalla fine del secolo scorso: circa il 7% di Pil in meno, altro che i numeri sbandierati dal governo e dal Sole 24 Ore.
Ad aggravare il quadro, si consideri che le stime si riferivano a un periodo sufficientemente lungo, con termine nel 2014, in cui le spese per la prima accoglienza erano ancora relativamente limitate, sebbene in rapida crescita negli ultimi anni. Ci torneremo in seguito.
Preme ora invece avvalorare le tendenze di lungo termine attraverso un confronto con la letteratura scientifica recente.
Un recente lavoro congiunto di ricercatori da università e istituzioni australiane con l’istituto di studi sul lavoro tedesco (Iza), esteso a 12 paesi sviluppati tra cui l’Italia, ha dimostrato rigorosamente come soltanto un’immigrazione fortemente polarizzata su individui dotati di solida formazione, conoscenza della lingua, esperienze lavorative pregresse e di alto livello, e per lo più giovani – in una parola “qualificati” – possa fornire un contributo positivo, sebbene limitato, all’economia del paese ospitante attraverso un aumento marginale dell’efficienza produttiva, cioè dell’allocazione efficiente delle risorse e delle retribuzioni. Purché il mercato del lavoro sia sufficientemente elastico e dotato di agevole progressione verticale, e comunque con l’esclusione del settore finanziario per il quale l’impatto di lavoratori immigrati è sempre negativo.
Per l’Italia, il problema è duplice: in primo luogo, come illustrato nell’articolo, le statistiche degli stranieri qualificati, sia rispetto al totale degli stranieri residenti, sia al totale dei nativi, sia infine al totale degli individui qualificati, collocano il nostro paese all’ultimo e penultimo posto tra tutti quelli considerati, cui non è estranea la politica delle riunificazioni familiari. In secondo luogo, il mercato del lavoro italiano è quanto mai anelastico e a scarsissima progressione verticale.
Per quanto attiene al settore finanziario, il problema è invece comune a tutte le nazioni oggetto dello studio: essendo questo il comparto più redditizio grazie alla finanziarizzazione dell’economia e alla scellerata creazione di una gigantesca montagna di debiti, esso ha generato il reclutamento dei lavoratori più qualificati, delle menti migliori, col duplice risultato di rendere molto difficilmente competitivo un immigrato (che, se reclutato, renderà spesso meno di un nativo), nonché di sottrarre fondamentali risorse umane di alto livello ai settori realmente produttivi, generando un grado crescente di inefficienza di base nelle economie sviluppate, a sua volta causa di inelasticità del mercato del lavoro.
In conclusione, non soltanto le politiche immigratorie italiane sono state completamente errate rispetto alle eventuali necessità e anzi gravemente depressive, ma neppure una immigrazione qualificata potrebbe fornire significativi risultati.
L’evidenza che neppure immigrati ad alta qualificazione, introdotti in un corpo nazionale omogeneo e ben identificato, sono in grado di apportare significativi incrementi di produttività, mentre potenziali lavoratori allogeni a bassa e media qualificazione apportano un contributo marcatamente negativo alla stessa produttività, emerge anche in un recente lavoro della scuola di economia dell’università della Malesia a Selangor.
Il ponderoso e recentissimo lavoro della Scuola di economia norvegese dal titolo “Conciliare welfare e immigrazione in Europa”, che prende in esame 16 paesi europei e soltanto parzialmente l’Italia, consente di attribuire essenzialmente a un astratto buonismo caritatevole, proprio soltanto degli strati più ricchi delle società nazionali, la propensione all’accoglienza, in particolare degli immigrati a bassa qualificazione, rivelando d’altra parte una robusta e significativa correlazione inversa di tale propensione del resto delle popolazioni native con il tasso di disoccupazione. In altre parole, la competizione per i benefici dello stato sociale emergono prepotenti allorché la crisi del 2008-2009 tuttora irrisolta ha consegnato vasti strati delle popolazioni europee alla sola rete di protezione offerta dal welfare, determinando insieme a una crescente richiesta di ridistribuzione della ricchezza anche una montante avversione all’accoglienza.
È però in un altro rapporto della tedesca Iza, redatto sempre nel 2015 insieme a ricercatori di due istituti di ricerca economica danesi, dal titolo “L’impatto degli immigranti sulle finanze pubbliche: un’analisi previsionale per la Danimarca” che emergono numeri molto precisi e perfettamente in linea con le nostre precedenti stime.
Partendo dalla premessa per cui l’invecchiamento delle popolazioni europee rappresenta un rischio per le finanze pubbliche, sia in termini pensionistici che di assistenza sanitaria e sociale, è esaminato il potenziale dell’immigrazione in funzione del rafforzamento della sostenibilità finanziaria. Il caso di studio della Danimarca si intende rappresentativo dei paesi con welfare molto sviluppato, inoltre un caso certamente più favorevole di quello dell’Italia, dal momento che il paese scandinavo non adotta l’Euro pur essendo perfettamente integrato con le economie del centro e nord Europa.
La principale conclusione della ricerca è che gli immigrati da paesi più ricchi, quindi particolarmente qualificati, producono un impatto fiscale positivo, mentre immigrati da paesi più poveri, e meno qualificati, portano un forte impatto negativo, causato soprattutto dalla loro collocazione alla base inferiore del mercato del lavoro – quando non dalla disoccupazione – e dall’anticipo dell’età della pensione (lavori manuali, usuranti, ecc), il tutto favorito dalla generosità dello stato sociale.
Nel 2014, la popolazione danese, oltre 5,6 milioni in totale, era costituita per l’89% da nativi, da immigrati da paesi occidentali nella misura del 3,5% di prima generazione e dello 0,4% di seconda, da immigrati da paesi non occidentali nella misura del 4,9% di prima generazione e del 2,3% di seconda generazione. Il bilancio pubblico rispetto ai nativi vedeva un deficit di 2,65 miliardi di euro, in gran parte dovuto a pensioni e assistenza sociale e sanitaria, mentre gli immigrati occidentali producevano un vantaggio netto per le finanze pubbliche nella misura di mezzo miliardo di euro, in quanto ai 700 milioni generati dagli immigrati di prima generazione si sottraevano circa 200 milioni spesi per quelli di seconda generazione, prevalentemente molto giovani.
La situazione si ribalta completamente allorché si prendono in considerazione gli immigrati da paesi non occidentali: se a quelli di prima generazione è ascrivibile un impatto negativo pari a 550 milioni di euro, a quelli di seconda è attribuito un deficit di ben 1,68 miliardi, largamente dovuto alle spese per l’istruzione e i sussidi sociali, ambedue le voci molto superiori – anche in proporzione alla consistenza numerica delle relative comunità – rispetto agli immigrati dai paesi sviluppati. Complessivamente, gli immigrati meno qualificati pesavano sulle casse pubbliche per 2,2 miliardi di euro, ossia quasi quanto l’intera comunità nativa.
Anche le proiezioni per i prossimi anni e pochi decenni non mostrano affatto un’inversione della situazione, gli immigrati da paesi non occidentali continuando a pesare negativamente ogni anno sulle casse pubbliche e sempre in misura molto vicina al peso della comunità nativa nonostante le differenze quantitative, a causa dell’inerzia prodotta dalla collocazione della gran parte dei relativi lavoratori ai livelli più bassi del mercato del lavoro e alla maggiore incidenza di disoccupazione. Considerando che non si è tenuto conto di altri fattori come la maggiore propensione delinquenziale, la crescente distruzione dell’omogeneità della comunità nativa, la compressione retributiva indotta dalla concorrenza immigratoria in particolare nella fascia meno qualificata, soprattutto della possibilità che gli afflussi siano molto superiori a quanto previsto (nello studio si assume che gli immigrati non occidentali costituiscano poco più del 10% della popolazione danese nel 2050), infine della possibilità assai concreta che l’economia globale ed europea continuino a deteriorarsi nel tempo, le stime per il futuro possono considerarsi particolarmente cautelative.
Proiettando i dati danesi del 2014 all’Italia, considerando la popolazione circa undici volte superiore e la presenza di immigrati praticamente tutti non occidentali nella misura dell’8,2% della popolazione complessiva (contro il 7,2% in Danimarca), il solo deficit per le finanze pubbliche italiane generato dall’immigrazione sarebbe stato dell’ordine di 13 volte superiore a quello danese, cioè a quasi 29 miliardi di euro. Una somma che, sottratta alle spese pubbliche per investimenti produttivi, da sola può ampiamente giustificare, e probabilmente superare di molto in considerazione dell’elevato valore moltiplicativo degli investimenti pubblici, la nostra stima di cento miliardi di euro di ricchezza mancante.
Ovviamente, il welfare italiano non è generoso quanto quello danese, sebbene non di molto e in particolare per la voce sanitaria, ma anche una riduzione – per esempio – del 30% dell’impatto dell’immigrazione sulle finanze pubbliche non cambierebbe la situazione, anzi rendendo ancora più verosimile la stima dei cento miliardi di euro.
Molti altri lavori di analisi scientifica potrebbero essere menzionati e illustrati, ma l’ampio excursus effettuato sulla letteratura più recente – per altro in massima parte citata e considerata negli studi già descritti – consente di confermare completamente le precedenti conclusioni.
Esiste però un’altra importante voce di costo dell’immigrazione che la letteratura scientifica ancora non ha affrontato se non marginalmente, dal momento che il fenomeno è diventato molto rilevante soltanto di recente: la prima accoglienza.
Soccorre in questo un’analisi estremamente puntuale e riferita proprio all’Italia, effettuata dal centro studi Impresa lavoro e riportata da Panorama.
Nel nostro paese sono sbarcati in due anni oltre 300mila persone, e intorno a 100mila sono ospitati nei diversi centri di accoglienza ormai distribuiti a macchia d’olio sul territorio.
Considerando per i maggiori centri di accoglienza un costo medio di 40 euro al giorno per “ospite” – ma questa voce sale sensibilmente per le strutture alberghiere e altre strutture esterne private convenzionate nonché per i minori non accompagnati, per non parlare degli appalti gonfiati finiti sotto la lente della magistratura (e quelli ancora sconosciuti) – inoltre le spese connesse alla primissima accoglienza in fase di salvataggio e sbarco (circa 168 euro a persona), le spese sanitarie, i costi giudiziari e militari (pattugliamento, operazioni in mare), si arriva per il 2014 a un costo di circa 1,4 miliardi di euro, che per il 2015 è previsto in aumento fino a circa 2,1 miliardi di euro, e nel 2016 – ipotizzando un numero di sbarchi paragonabile a quello registrato negli ultimi due anni (circa 175mila) – oltre 2,6 miliardi, perché nel frattempo gli immigrati clandestini si accumulano nelle strutture centrali e periferiche.
Cifre, queste, certamente inferiori di circa dieci volte rispetto al peso esercitato dagli immigrati già residenti sulle finanze pubbliche ma che, sottratte agli investimenti pubblici, concorrono a ridurre la ricchezza nazionale per almeno altri dieci miliardi di euro e in misura crescente. Soprattutto, però, spese che porteranno altri e molto maggiori costi attraverso la regolarizzazione almeno di una parte delle masse allogene, a sua volta favorita dai recenti sviluppi legislativi in materia di cittadinanza. Un vero e proprio investimento al contrario, la cui suicida irrazionalità è testimoniata non solo e paradossalmente non tanto dalle spese immediate quanto dai costi futuri che saranno generati – come già dai loro oltre cinque milioni di predecessori – da quelli che le forze di governo si ostinano a chiamare i “nuovi italiani”.
Francesco Meneguzzo
1 commento
Quasi tutti i paesi europei rifiutano i profughi e gli imigrati pochè si rendono conto che il rapporto benefici e svantaggi va a loro scapito.
Gli immigrati creano più povertà che ricchezza e per questo vengono respinti.
Il razzismo proviene dalla miseria e dalla povertà.
Nei fatti gli immigrati accolti vengono poi gettati nelle periferie dove per sopravvivere si infilano nelle diverse mafie della droga e prostituzione.
Renzi andrebbe processato alla corte dell’aia per le politiche ipocrite sull’immigrazione.i