Roma, 26 ott – Il 6 novembre, a San Miniato (Pisa), nei locali di Palazzo Grifoni, la Fondazione del Dramma Popolare (quel Teatro dello Spirito che propone ogni anno, nello splendido palcoscenico di Piazza del Duomo, una rappresentazione sul mistero di Dio e dell’uomo) ricorderà Alberto Burri, nel centenario della nascita. Rievocandolo con una mostra fotografica che ha al centro L’ avventura di un povero cristiano, il romanzo scritto nel 1968 da Ignazio Silone. E che l’anno dopo diviene testo teatrale con la scenografia dell’artista umbro per l’appuntamento estivo col Dramma.
L’incontro del 6 sarà dunque una bella occasione per ridisegnare il volto di Burri, con le parole del critico Antonio Guicciardini Salini- che ne illustrerà la poetica rivoluzionaria- e dell’attore Giancarlo Giannini, che rievocherà la propria esperienza di protagonista (giovanissimo, ventidue anni) della sofferta storia di papa Celestino V.
Un papa “per caso”? E Alberto Burri fu pittore “per caso” visto che “non nacque” pittore, ma medico? E poi? E poi ci fu il “pittore”. Con le virgolette. Perché c’è ancora chi non può fare a meno di mettercele a sottolineare un disagio che diventa rifiuto.
Già, Burri… Quello dei cazzotti negli stomaci dei benpensanti. Quello dei sacchi, dei catrami, delle muffe, delle cuciture, degli strappi, dei ferri, dei cretti, del fuoco, della plastica. Il provocatore che negli anni Cinquanta mandava in bestia i custodi dell’ortodossia figurativa, dai compagni- conservatori, inneggianti al pedagogico realismo socialista, ai camerati-conservatori , austeri custodi del “law and order” tradizionale. Grande lo sdegno: quelle tele “oltraggiavano” il gusto, i principî, i valori. Uno schifo. Facevano “vomitare”.
Eravamo di fronte a un artista molto più che trasgressivo. Un sovversivo, piuttosto.
Chissà quanti tra i fieri detrattori sapevano che Burri, umbro di Città di Castello, era un fascista di quelli con le palle d’acciaio. Quanto meno lo era stato, senza mai pentirsene. Da rileggere, a questo proposito, l’intensa biografia di Piero Palumbo, arricchita di immagini inedite e dalle significative testimonianze di Gino Agnese, Giovanni Carandente e Lorenza Trucchi (Burri. Una vita, Electa 2007, pp.207, euro 29).
Voleva una vita spericolata il ragazzo Burri, gran lettore di libri d’avventura e fumetti “eroici”, ed era ammalato d’Africa, ancor prima di andarci. Poi il sogno si avvera: il ventenne Alberto è volontario in Etiopia. Credere, obbedire e combattere. Per l’Impero. Nel ’40, altri scenari guerreschi: i Balcani, il Montenegro. In un infuriare di agguati, rastrellamenti ed esecuzioni, il sottotenente Burri, laureato in medicina, si prodiga in un ospedale da campo.
Ma ha ancora voglia di orizzonti esotici. Ed è fortunato perché nel marzo del ’43 lo assegnano al X Battaglione Mussolini, operante in Africa Settentrionale. In Tunisia Burri e camerati combattono vigorosamente ma le buscano. Arrivano sconfitta e prigionia. Varie le destinazioni, Stati Uniti compresi. Alberto e altri tremila finiscono nel campo di concentramento di Hereford, profondo Texas. Ed ecco il caso – per Borges, “ una causa segreta”, un appuntamento segnato, a nostra insaputa, sul Gran Libro del Destino – di cui si parlava all’inizio. Succede che al giovane medico umbro, insieme all’orologio, gli yankee sequestrano lo zainetto sanitario dove c’erano fiale, boccettine di medicinali e altro. E lui si incazza talmente che rinuncia per sempre alla medicina.
Ma ora che fare? Come trascorrere il tempo? Tra i compagni di prigionia c’è che si dedica allo sport, chi costruisce mobili, chi studia l’inglese, chi scrive (“saranno famosi” Giuseppe Berto, Dante Troisi, Gaetano Tumiati), chi fa politica ( i futuri deputati del MSI Beppe Niccolai, Roberto Mieville, Nino De Totto e Gianni Roberti).
Burri ha deciso: farà il pittore. E per sempre. Dunque lavora sodo. Schizzi, acquerelli, il primo olio su tela, intitolato “Texas”: una immensa distesa di terra, un sole implacabile, un mulino, una baracca, fili spinati, il fumo di una locomotiva sullo sfondo. Intanto la vita si fa sempre più dura. Soprattutto per quelli che, come Alberto, hanno risposto “picche” alla richiesta di collaborare con gli americani. Fanatici della coerenza più che del fascismo, i non-cooperatori, dopo il maggio del ’45, si vedono diminuire le razioni e chiudere lo spaccio. Bisogna darsi da fare: “à la guerre comme à la guerre”, e così per i buchi nello stomaco vanno bene anche le cavallette. Che Alberto e compagni friggono con la brillantina, visto che olio e burro te li sogni.
Ecco, la prigionia è stata la vera maestra del nostro “pittore senza maestri” , superlaureato nel dopoguerra da critici, mercanti d’arte , clienti “chic” ed anche “radical”. È Hereford che ha fatto scoprire a Burri i materiali che diventano“immateriali”, essenziali, simbolici. La ricchezza degli elementi poveri. La concreta astrazione della terra e della tela che raccontano l’uomo e le sue prigioni. L’avventura di un cristiano, “povero” e “ricco” come il Celestino V di cui, ricordando il Burri scenografo, si parlerà a San Miniato. La città, già Vicariato di Federico II imperatore Hohenstaufen, dove, dal 1947, il Dramma chiama tutti a confronto con misura e dismisura, redenzione e creatività, sofferenza e riscatto dell’umano e del troppo umano. Anche subumano. Anche sovrumano.
Mario Bernardi Guardi