Buenos Aires, 21 set – Oggi cade il sessantesimo anniversario del golpe che depose Juan Domingo Perón. Il clero e la ricca borghesia internazionalista erano riusciti, dopo tanti sforzi, a disarcionare il leader dei descamiciados. Egli rappresentò il sogno di un’alternativa agli schemi di Yalta, una Terza via tra liberismo e comunismo.
È bene, però, ricostruire cronologicamente i fatti partendo dal contesto. Il continente sudamericano da un punto di vista economico e sociale era fondato sui grandi latifondi con alcune enclave industriali. A farla da padrona erano i capitalisti americani le logge massoniche e il clero. L’Argentina non era, certo, un’eccezione. Correva l’anno 1943 quando un golpe militare del GUO (Grupo de Oficiale Unidos) pose fine al governo filo britannico di Ramòn S. Castillo. Il colonnello Perón era uno dei protagonisti di quel colpo di stato. Nel 1944 divenne ministro del lavoro e dello stato sociale. Le sue idee, però, davano fastidio ai suoi compagni di giunta. Le conseguenze si videro subito. Il 9 ottobre del 1945 fu costretto alle dimissioni e il 16 ottobre fu internato all’ospedale militare di Buenos Aires.
Quello sarà il momento in cui si sarebbe per sempre consolidato il binomio capo-popolo. Il 17 ottobre, senza che nessuno avesse dato l’ordine, ci fu la “marcia dei descamisados”. I descamisados occuparono Plaza de Mayo esigendo la liberazione di Perón, e gli stessi generali che lo avevano arrestato furono costretti a richiamarlo al Governo. Quel 17 ottobre sarà ricordato come “il giorno della lealtà”. Il 24 febbraio 1946 fu eletto Presidente della Repubblica con il 52% dei suffragi. Il dado era tratto e non si poteva più tornare indietro.
Vediamo in breve cosa fece il neopresidente. Il capitale straniero fu nazionalizzato. Fu imposto il controllo sulla Banca Centrale, sui servizi pubblici essenziali e del settore energetico. In pratica americani, inglesi, francesi e tedeschi dopo aver a lungo banchettato nella Pampas, rimanevano a bocca asciutta. Introdusse, poi, per lavoratori le assicurazioni per il lavoro e la salute, ferie retribuite, giornata lavorativa a otto ore. In più rafforzò l’edilizia popolare e l’alfabetizzazione delle classi povere.
Sembra di vedere un film già visto qualche anno prima nel Vecchio Continente. Sì, è vero. Juan Domingo quel film lo aveva visto con i suoi occhi alla fine degli anni trenta in Italia. Venne in Italia per motivi di studio e rimase affascinato dal modello fascista. Ma c’è di più. Uno dei suoi più ascoltati consiglieri era Giuseppe Spinelli già ministro del Lavoro della Repubblica Sociale Italiana. Che scandalo! Il male assoluto, sotto mentite spoglie, contagiava anche il Sud America. Un ministro della Rsi fu l’ispiratore per l’attuazione in Argentina dei programmi di corporativismo e socializzazione.
Se Gianni Minà fosse a conoscenza questa liaison dangereuse si taglierebbe le vene. Ma se questo non bastasse a turbare i sonni dei terzomondisti italiani ci sono anche altri aspetti da ricordare. Infatti, i rapporti tra Fidel Castro e Perón erano strettissimi. Per non parlare poi della stima reciproca tra il Capo di Stato argentino e il comandante Ernesto Che Guevara. Forse Perón era un comunista? Se così fosse perché, dopo esser stato esiliato, scelse di vivere nella Spagna di Franco ma non nella Cuba di Fidel? E poi come la mettiamo con Giuseppe Spinelli? Forse, Spinelli, come Dario Fo, caduto il fascismo, si convertì al leninismo? Tante domande che possono trovare una solo risposta: pregiudizi e facili convinzioni soccombono davanti alla realtà storica.
Infatti, chi ha letto la Costituzione della Repubblica Sociale Italiana non dovrebbe affatto meravigliarsi del rapporto tra Spinelli e Perón. Vediamo perché. L’articolo 12 della suddetta Carta Costituzionale e stabilisce che: “Il popolo partecipa integralmente, in modo organico e permanente, alla vita dello Stato e concorre alla determinazione delle direttive, degli istituti e degli atti idonei al raggiungimento dei fini della Nazione, col suo lavoro, con la sua attività politica e sociale, mediante gli organismi che si formano nel suo seno per esprimere gli interessi morali, politici ed economici delle categorie di cui si compone, e attraverso l’Assemblea costituente e la Camera dei rappresentanti del lavoro”. Una sintesi, insomma, tra corporativismo e presidenzialismo. Senza scordarsi degli articoli 110 e 111: “ L’intervento dello Stato nella gestione di imprese economiche ha luogo nei casi in cui siano in giuoco interessi politici dello Stato, nonché per controllare l’iniziativa privata e per incoraggiarla, integrarla e, quando sia necessario, sostituirla se essa si dimostri insufficiente o manchi.
La Repubblica assume direttamente la gestione delle imprese che controllino settori essenziali per l’indipendenza economica e politica del Paese, nonché di imprese fornitrici di prodotti e servizi indispensabili a regolare lo svolgimento della vita economica del Paese. La determinazione delle imprese che si trovino in tale situazione è fatta per legge”.
Carta canta, dunque. Ma le parole di Perón spiegano meglio il legame tra peronismo e fascismo. Nel 1973 così descriveva l’Italia in camicia nera: “Lì si stava facendo un esperimento. Era il primo socialismo nazionale che appariva nel mondo. Non voglio esaminare i mezzi di esecuzione che potevano essere difettosi. Ma l’importante era questo: un mondo già diviso in imperialismi e un terzo dissidente che dice: No, né con gli uni né con gli altri, siamo socialisti, ma socialisti nazionali. Era una terza posizione tra il socialismo sovietico e il capitalismo yankee”. L’Italia fascista, dunque, come avanguardia per la realizzazione della sintesi tra capitale-lavoro. Gli antifascisti, certo, storceranno la bocca. Pazienza. Si consolino pure con Matteo Renzi e con mister Coop Giuliano Poletti.
Salvatore Recupero
Tercera posicion: il legame profondo tra peronismo e fascismo
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