Roma, 22 apr – Il 25 aprile 1945, con la partenza di Mussolini da Milano alla volta di Como, si consumò l’ultimo atto della Repubblica sociale italiana: l’epilogo di una storia iniziata ventisei anni prima, sempre nel capoluogo lombardo, con la fondazione dei Fasci di Combattimento all’adunata di piazza San Sepolcro. Tra gli esponenti del fascismo repubblicano che quel giorno, alla prefettura di corso Monforte, attorniavano il Duce, vi era anche Carlo Borsani.
Borsani al fianco di Mussolini
Legnanese, classe 1917, medaglia d’oro al valor militare e cieco di guerra (aveva perduto la vista nel 1941, sul fronte greco-albanese, per un colpo di mortaio), Borsani era un uomo che Mussolini doveva stimare, se è vero che – come riferisce Piero Pisenti, l’allora guardasigilli della Rsi che assistette alla scena – il Duce, in quell’occasione, lo abbracciò; e, insieme a lui, abbracciò anche Carlo Silvestri, un ex socialista che – si legge in Salò di Silvio Bertoldi (Rizzoli, 1978) – «s’era fitto in capo di riportare alle origini l’estrema incarnazione del fascismo repubblicano». Dopo quel gesto di commiato, ricorda ancora Pisenti, andatosene in automobile Mussolini con alcuni gerarchi, si allontanò anche Borsani, a piedi, «da me [cioè dallo stesso Pisenti] condotto fino alla strada» dove lo attendeva «il solito accompagnatore».
Incontro a un tragico destino
Se ne andò, il legnanese, incontro a un tragico destino. Rifugiatosi all’Istituto oftalmico, fu arrestato dai partigiani il 27 aprile e imprigionato nei sotterranei del Palazzo di Giustizia, dov’era detenuto anche un prete, don Tullio Calcagno, direttore della rivista cattolico-fascista «Crociata italica». Coincidenza che colpisce, questa, perché Borsani era un sincero credente che aveva compiuto gli studi liceali al Collegio vescovile di Lodi forse con l’intenzione, poi accantonata, di prendere i voti; e che conosceva l’arcivescovo di Milano, il cardinale Ildefonso Schuster, per cui era convinzione diffusa che l’illustre prelato sarebbe intervenuto in suo favore. L’intercessione però non vi fu, e per Borsani, come per don Calcagno, sfumò ogni speranza di salvezza. Così Bertoldi ricostruisce la morte del direttore di «Crociata italica», che dovette assomigliare a quella di Borsani: condannato da un sedicente «tribunale del popolo» e condotto in piazzale Susa («dove da giorni s’ammazza[va] la gente»), il religioso ebbe «appena il tempo di inginocchiarsi e di farsi il segno della croce», prima di essere abbattuto da una raffica di mitragliatrice. Quanto a Borsani, fu ucciso quel medesimo giorno, nello stesso luogo di don Calcagno, con un colpo di pistola alla nuca («un assassinio, non un’esecuzione», chiosa Bertoldi). Il suo cadavere, riverso su un carro da netturbino, venne esposto al ludibrio lungo le vie di Milano con appeso al collo, in segno di scherno, un cartello che recitava: «ex medaglia d’oro».
Un oratore per la Rsi
Ma quale ruolo svolse effettivamente Borsani – «fucilato [sic] senza processo, e soprattutto senza colpe» (ancora Bertoldi) – al servizio di quella Rsi cui aveva aderito sin dalla sua costituzione? Borsani compare tra le personalità che, alla fine di settembre del 1943, Mussolini aveva individuato per formare un governo e completare le strutture portanti del nuovo Stato; e il legnanese, infatti, fu scelto a rappresentare la categoria cui egli stesso apparteneva, ottenendo la presidenza dell’Associazione dei mutilati e invalidi di guerra. In tale veste, non solo entrò nel direttorio del Partito fascista repubblicano, ma svolse anche un impegnativo ruolo di oratore, mettendo a disposizione della Rsi la sua perizia retorica, con la pronuncia di appassionate arringhe alla radio e nelle pubbliche piazze. E furono situazioni, quest’ultime, in cui egli mise a rischio la vita, come si evince da un rapporto del questore di Torino dell’agosto 1944, ove si accennava a un attentato contro Borsani sventato pochi giorni prima, in occasione di un discorso che la medaglia d’oro avrebbe dovuto tenere alla cittadinanza. Borsani oratore in prima linea, dunque. Che, parlando a Genova, rammentò i fasti dell’antica Repubblica marinara, onorò la memoria dei liguri caduti in guerra ed esortò a continuare la lotta per l’onore patrio. E a Fiume, da cultore di poesia laureatosi con una tesi sulla Poetica classica nei confronti di quella moderna, fece «risuonare parole che rievoca[va]no il cannoneggiamento che pose fine alla sedizione di D’Annunzio come il primo dei tradimenti del re sabaudo» (Luigi Ganapini, La repubblica delle camicie nere, Garzanti 1999).
Alla direzione di «Repubblica fascista»
Borsani fu inoltre uno tra i protagonisti del giornalismo della Rsi. Da un ben documentato saggio a cura di Vittorio Paolucci (I quotidiani della Repubblica sociale italiana, Argalìa 1987) si apprende infatti che la medaglia d’oro diresse, dal gennaio al luglio 1944, «La repubblica fascista», testata milanese succeduta all’«Ambrosiano» di Pio de Flaviis. Come giornalista, oltre che oratore, Borsani fu tra chi sostenne e portò avanti, sin dagli albori della Repubblica, la posizione del federale di Ferrara Igino Ghisellini: uno dei «fascisti moderati», sottolinea Bertoldi, «che puntavano sulla pacificazione e su un governo che non ripetesse gli errori di faziosità del Ventennio». Il legnanese, in effetti, si schierò con i direttori del «Resto del Carlino» e della «Stampa» (Giorgio Pini e Concetto Pettinato) a favore di elezioni interne alle cariche del partito e per una maggiore libertà di critica in seno al Pfr e al governo saloino. A lui si rivolse il filosofo Edmondo Cione – fondatore del Raggruppamento nazionale socialista e del quotidiano «L’Italia del popolo», inviso ai fascisti intransigenti – affinché lo raccomandasse presso Mussolini. Ospitò sulle colonne di «Repubblica fascista», si legge in Paolucci, «interventi di persone e gruppi, non di matrice fascista, che sosten[evano] l’opportunità della conciliazione nazionale» (e perciò Farinacci, direttore del «Regime fascista», lo giudicava, scrive Bertoldi, «ai limiti dell’eresia»). Fu definito «afascista e tiepido mussoliniano» da un altro intransigente, il sottosegretario Barracu, per un discorso pacificatore pronunciato a Milano (Renzo De Felice, Mussolini l’alleato, Einaudi 1997).
Un «moderato» per la socializzazione
Furono critiche senz’altro ingenerose, quelle di Farinacci e Barracu alla medaglia d’oro, seppur comprensibili nel clima incandescente della guerra civile, ove gli appelli alla concordia nazionale potevano apparire, ai più, ingenui e velleitari. Ma Borsani fu davvero, nella Rsi, un «moderato»? La risposta è sì, a patto però di determinare correttamente la posizione del legnanese nella dialettica tra le due anime del fascismo repubblicano: quelle che si scontrarono sulle alternative tra pluralismo e partito unico, distensione e intransigenza, libera discussione e uniformità ideologica. «Moderato» fu allora Borsani perché si schierò sempre per l’attenuazione della violenza e l’apertura alle istanze liberalizzatrici. Non fu tale, invece, sulla rivoluzione socializzatrice, perché mai si mise di traverso all’elemento più significativo dell’esperienza fascista repubblicana. Ché anzi egli si pose, in tale ambito, all’avanguardia, intenzionato a tenere insieme l’esigenza della pacificazione con l’impulso all’innovazione sociale ed economica. «La repubblica fascista» approfondì, sotto la sua direzione, i temi della socializzazione, del sindacato, della continuità con il fascismo primigenio. E il legnanese realmente credette nel potenziale rivoluzionario della Rsi; oltre che, ed è qui un nesso con la pacificazione, nella necessità, per porlo in atto, di non respingere il contributo di chi fascista non era. Qualsiasi etichetta gli si voglia applicare, Borsani fu comunque tra coloro che, nell’imminenza del crollo, restarono al posto di combattimento. Fu quindi un modello di coerenza, di dedizione estrema a una causa liberamente scelta, seppur votata infine alla disfatta. Un uomo al quale si attaglia il motto degli hidalgos: «la sconfitta è il blasone dell’anima ben nata». E per cui valgono le parole di Giovanni Gentile su chi «piglia la vita sul serio» e che, per questo, «sa tirare le conseguenze dei propri convincimenti e tradurre le proprie idee in azioni». Tradurle in azioni, precisava Gentile, nella consapevolezza che l’ideale che si è scelto di servire «è programma, è missione. E perciò è [anche] sacrificio».
Corrado Soldato