Roma, 28 ott – Esiste l’arte, esiste il Fascismo. Esistono insieme. Vittorio Sgarbi lo scorso 14 aprile al Mart di Rovereto, museo del quale è presidente, con la curatela di Beatrice Avanzi e Daniela Ferrari ha dato il via, fino allo scorso 29 settembre, alla mostra Arte e Fascismo.
Dal museo alle librerie
L’immagine simbolo della rappresentazione una scultura di Adolfo Wildt denominata Dux, realizzata nel 1923, deturpata dai vincitori all’indomani del 25 aprile 1945. La figura riporta tre colpi sul volto che trasformano il significato dell’opera attraverso la cieca violenza partigiana scagliatasi contro il simulacro di Benito Mussolini. Dall’esposizione, lo scorso luglio, è approdato in libreria, edito da La nave di Teseo, il testo per l’appunto intitolato Arte e Fascismo. La “provocazione” di Sgarbi ruota attorno al sottotitolo del volume: “nell’arte non c’è Fascismo. Nel Fascismo non c’è arte”. Eppure questo assioma, perfettamente adagiato sulla corrente di pensiero figlia della cancellazione antifascista, viene smentito dai fogli interni al saggio.
Carrà e gli altri: Arte e Fascismo
Nelle pagine 26 e 27 il critico e storico dell’arte cita una frase di Luigi Bartolini, datata 1959, a seguito di una disputa intellettuale con Lionello Venturi. “Che Lionello Venturi erri per spirito di parte, volendo dimostrare che l’arte italiana sfiorì sotto il Fascismo, non è chi non lo veda. L’arte italiana era prima del Fascismo Aristide Sartorio [l’autore del fregio della Camera dei deputati] e altri brillanti e superficiali cartolinai. Fu durante il Fascismo che fiorirono i Carrà, i Soffici, i de Pisis, i Scipione e il suo derivato Mafai, i de Chirico, Menzo, Campigli, Rosai, Manzù, Marino Marini e molti altri valorosi artisti”. Bartolini fu pittore e antifascista, durante il ventennio conobbe il confino. Ma dichiarò che nonostante l’esilio impostogli da Mussolini il Duce “rispettò, però, il mio lavoro d’artista”.
La storiografia ha quindi voluto, dalla letteratura alla pittura passando per la scultura e i caratteri figurativi declinati in ogni loro essenza, cancellare l’accellerazionismo e l’esplosione della vitalità artistica tra il 1922 e il 1945. Lo sappiamo, la prima avanguardia d’Europa, il Futurismo, ha trovato gli albori nel 1909. Certo la Prima Guerra Mondiale ha tenuto a battesimo sotto le tempeste d’acciaio una fucina infinita di scrittori, giornalisti e artisti che hanno bagnato la propria penna e il proprio pennello tra le trincee del Carso o sulle rive dell’Isonzo. Certo La Voce ha conosciuto le rotative delle stampe a partire dal 20 settembre 1908 animata dal soffio di Giuseppe Prezzolini, di Giovanni Papini e di Ardengo Soffici. Ma quell’immensa serra calda, quel terreno fertile è poi sgorgato nella rivoluzione impersonata dalla camice nere. Divenendone colore, tavola e scalpello degli artisti sparsi su tutto lo stivale.
Arte e Fascismo, manifestazione essenziale dello spirito umano
Fu lo stesso Mussolini, il 26 marzo 1923 all’inaugurazione della mostra Novecento, voluta da Margherita Sarfatti, alla galleria Lino Pesaro di Milano, a dichiarare: “Non si può fare una grande Nazione con un piccolo popolo. Non si può governare ignorando l’arte e gli artisti. L’arte è la manifestazione essenziale dello spirito umano; comincia con la storia dell’umanità e seguirà l’umanità fino agli ultimi giorni. (…) Dichiaro che lungi da me l’idea di incoraggiare qualche cosa che possa assomigliare all’arte di Stato. L’arte rientra nella sfera dell’individuo. Lo Stato ha un solo dovere: quello di non sabotarla, di dar condizione umane agli artisti”.
E qui collimano visioni classiche e anticlassiche. Linee uniformi e tratti gridati. Gli Achille Funi e i Fortunato Depero. C’è stato Pier Paolo Pasolini che trovò nella forma di Sabaudia la “città ideale”. Oppure Leonardo Sciascia che toglieva, sul finire degli anni ‘80 del secolo scorso, dalla damnatio memoriae gli affreschi di Duilio Cambellotti nel palazzo della prefettura di Ragusa.
Immagini, dipinti e statue che sono passate attraverso il premio Cremona e quello di Bergamo. Ma come nel caso dello scultore siracusano Biagio Poidimani hanno trovato chiusi i cancelli del circuito della cultura democratica e ufficiale. O ancora peggio la tragica fine del pittore sassarese Giuseppe Biasi che trovò attraverso la lapidazione la morte, il 20 maggio 1945, perché accusato di essere stato una spia nazista.
Il coraggio di guardare in faccia la storia
Lunghe vicende, storie minute che unite diventano la rappresentazione di ognuno di noi. Nelle parole di Sgarbi esiste un’arte per l’arte che racconta i momenti e il vissuto, ma il rischio è sempre quello di spegnere la fiamma del contenuto asfissiandone il significante. Forse è proprio esso la fiamma dell’ispirazione che squarcia i nostri occhi ancora oggi poggiandoli su quelle tavole e sui quei rilievi. Ma intanto grazie alla mostra al Mart e al testo il velo di Maya è stato indicato, per toglierlo serve il coraggio di guardare in faccia, in toto, la storia d’Italia.
Lorenzo Cafarchio