Roma, 24 ott – Agli inizi del nuovo millennio, nel Libro Verde della Commissione Europea, la “Responsabilità Sociale dell’Impresa” venne indicata come “Integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”. Con la nuova comunicazione del 25 ottobre 2011 (n. 681), la Commissione Europea ha proposto una nuova definizione di RSI come “responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società”. Per soddisfare pienamente la loro responsabilità sociale, le imprese devono porre in atto un processo di integrazione delle questioni sociali, ambientali, etiche, i diritti umani e le sollecitazioni dei consumatori nelle loro operazioni commerciali e nella loro strategia di base.
I modelli attuali
Intorno al concetto di RSI si sono sviluppati una serie di modelli, atti a garantire il rispetto di parametri obiettivi su alcuni valori etici nell’ambito delle strategie e dei comportamenti aziendali. Il modello SA8000, nella versione aggiornata nel 2014, prevede otto requisiti specifici:
- escludere il lavoro minorile ed il lavoro forzato
- corrispondere una retribuzione dignitosa per il lavoratore
- il riconoscimento di orari di lavoro non contrari alla legge
- garantire la libertà di associazionismo sindacale
- garantire il diritto dei lavoratori di essere tutelati dalla contrattazione collettiva
- garantire la sicurezza sul luogo di lavoro
- garantire la salubrità del luogo di lavoro
- impedire qualsiasi discriminazione basata su sesso, razza, orientamento politico, sessuale, religioso.
Quindi ci troviamo di fronte ad un sistema di indicatori che evidenzia standard di livello etico del processo produttivo, di grande flessibilità e che può essere applicato dovunque, dai Paesi in via di sviluppo, ai Paesi industrializzati, nelle aziende di piccole e grandi dimensioni e negli enti del settore privato e pubblico. Analogamente lo standard AA1000 valuta i risultati delle imprese nel campo dell’investimento etico e sociale e dello sviluppo sostenibile e, sempre nell’ambito della Responsabilità Sociale dell’Impresa, l’ISO 26000 punta a coinvolgere i vari portatori d’interesse in un progetto che si contestualizza nell’ambito dell’odierna economia globalizzata. In questo tentativo di individuare regole per un comportamento responsabile delle imprese, anche l’OCSE ha dato il suo contributo indicando delle “Linee Guida destinate alle imprese multinazionali”.
L’applicazione delle Linee Guida dovrebbe promuovere un approfondito dialogo tra governi e imprese con la partecipazione ed il coinvolgimento sistematico dei sindacati, delle associazioni, delle organizzazioni non governative etc. In effetti i limiti attuali di applicazione della Responsabilità Sociale dell’Impresa sono principalmente la sua volontarietà e la mancanza di qualsiasi valore cogente nell’applicazione delle relative norme (e di conseguenti sanzioni per la loro trasgressione). Tutto ciò determina che nella pratica la RSI venga spesso valutata più nell’ottica di un miglioramento dell’immagine aziendale e delle relative performance commerciali piuttosto che di una effettiva valorizzazione dell’elemento etico e sociale dell’attività produttiva. Un reale cambio di direzione potrebbe essere favorito dall’assunzione a livello internazionale di un comportamento simile a quanto attuato per la Conformité Européenne, che certifica la corrispondenza dei prodotti immessi sul mercato ai requisiti essenziali, previsti dalle Direttive Europee in materia di sicurezza, sanità pubblica, tutela del consumatore. In caso di violazione di tali “requisiti di conformità”, la sanzione a carico di produttori, importatori, commercianti ed installatori arriva fino al ritiro dal commercio e al divieto di utilizzazione del prodotto. Quindi, se riteniamo, e lo riteniamo, indispensabile salvaguardare il fruitore di un determinato prodotto e la compagine sociale in cui lo stesso viene diffuso, se non vogliamo, e non vogliamo, avvallare una visione a “doppio binario” dell’etica e dei diritti (presunti) universali dell’uomo e del lavoratore, eguale azione repressiva e preventiva, , deve essere pretesa, con un metodo analogo a quanto previsto per la “Conformité”, in tutela del consumatore, nei confronti di quelle aziende, di qualsiasi settore, che non garantiscano l’imposizione di orari di lavoro psicofisicamente sostenibili, retribuzioni in linea con gli standard di sopravvivenza del paese interessato, primarie libertà sindacali, sicurezza e l’igiene dei luoghi di lavoro, divieto di forme di discriminazione di qualsivoglia natura e l’esclusione di bambini e lavoratori coatti dalle attività produttive. Proprio l’inserimento di questo elemento cogente potrebbe costituire un discrimine tra quanti puntano ad uno sviluppo sostenibile e quanti invece basano lo sviluppo su un aberrante sfruttamento dell’uomo sull’uomo determinando uno squilibrio nell’economia mondiale e un’azione di dumping basata sull’utilizzo di “materiale umano” senza diritti e a costo zero. Le aziende che non garantissero il rispetto di requisiti minimi in termini di diritti umani e sociali dovrebbero essere messe in condizione di non poter commercializzare i propri prodotti e/o servizi, né partecipare direttamente o indirettamente a gare d’appalto. Con una simile ipotesi di Certificazione Etica”(pena l’impossibilità di esportare la produzione), si otterrebbe il risultato di armonizzare lo sviluppo dei Paesi emergenti alfine di un reale miglioramento delle condizioni di vita dei propri cittadini. Inoltre si eviterebbe un processo di delocalizzazione motivato non tanto dai diversi “prezzi” che offre il mercato del lavoro globale, ma solo dall’opportunità di facili guadagni a spese di qualsiasi reale Responsabilità Sociale.
La Responsabilità Sociale dell’Impresa come conditio sine qua non all’accesso al mercato globale
Dobbiamo porre la dovuta attenzione su questi aspetti palesemente antinomici, che per il capitalismo finanziario internazionale sono esclusivamente i danni collaterali di un progresso, che per definizione deve essere inarrestabile, immodificabile e schiavo delle ferree leggi del libero mercato. In realtà tutto questo è falso ed ipocrita. Il libero mercato non è tale quando i vari competitors applicano regole diverse, quando qualcuno bara sulle altrui spalle e sulle altrui vite, o anche sulle spalle del proprio popolo e sulla vita dei propri concittadini. Il sedicente libero mercato non è tale, quando i paesi cosiddetti sviluppati, in una follia schizofrenica, tutelano correttamente i consumatori, esigendo certificazioni a garanzia di requisiti che, se mancanti, determinano automaticamente l’impossibilità per quel prodotto di essere commercializzato, ma non si degnano di tutelare al pari chi quel prodotto lo realizza. Dobbiamo far sì che il concetto di Responsabilità Sociale dell’Impresa acquisisca valore cogente e conditio sine qua non all’accesso al mercato globale. Alle aziende che non rispettano i requisiti minimi di sicurezza, salubrità, retribuzione non deve essere permesso poter commercializzare i propri prodotto in Italia, in Europa, nel Mondo.
Alle aziende che sfruttano i bambini, usano gli uomini come schiavi deve essere moralmente e legalmente precluso qualsiasi canale di vendita dei propri prodotti. Senza questo prerequisito tutto quanto si blatera di giustizia sociale, di “un mondo migliore”, dei sacrosanti “diritti dell’uomo” è solo un ipocrita tentativo di addomesticare le coscienze: Senza questo prerequisito si uscirà dalla stagnazione economica , continuum della crisi strutturale del capitalismo finanziario, ulteriormente aggravata da una scriteriata gestione della pandemia, se e quando ne usciremo, con la popolazione dei cosiddetti paesi industrializzati nel complesso impoverita, con un welfare distrutto e con uno squilibrio sociale, dei cosiddetti paesi emergenti, sempre più evidente, in cui elite occidentalizzate o meno vivranno in condizioni di estrema ricchezza a fronte di masse incommensurabili di “paria” moralmente, fisicamente, socialmente soggiogati e marginalizzati ai limiti della sopravvivenza.
Solo così si potrà evitare le troppo numerose “tragedie annunciate” o “tragedie provocate” che dir si voglia. Solo così si potrà sperare in una più equa distribuzione della ricchezza nei paesi emergenti, infatti non possiamo dimenticare che oggi la maggiore concentrazione di ricchezza è posseduta non solo dagli americani, ma anche da magnati cinesi e indiani. Solo così si potrà creare un equilibrio delle “regole del gioco” a livello mondiale, riducendo sacche di criminale parassitismo e corruzione. Solo così si potrà contrastare l’azione continua di riduzione del costo del lavoro, come unica soluzione per aumentare la produttività delle aziende occidentali. Solo così si potranno recuperare i valori etici e morali legati all’identità e alla specificità, alla diversità delle culture e al rispetto delle stesse, alla indispensabile osmosi tra esse, vista come arricchimento reciproco, nella salvaguardia delle rispettive peculiarità, evitando così il dramma sociale di una integrazione fittizia, frutto della perdita del senso di appartenenza, figlia di una emarginazione reale che nasce dallo sradicamento culturale. Inoltre solo così si potrà interrompere il depauperamento di opportunità, intelligenze, quadri e risorse indispensabili alla crescita dei paesi di origine, in un’ottica non di chiusura preconcetta ma sempre e comunque di difesa e tutela del lavoratore, che, in qualsiasi latitudine, continente, nazione, impresa, collabori alla produzione di ricchezza per la propria Nazione.
Globalizzazione, immigrazione, delocalizzazioni e capitalismo finanziario sono elementi del contesto economico sociale degli ultimi decenni con i quali dobbiamo obbligatoriamente confrontarci, ma esistono gli opportuni antidoti per limitarne i mali e ridurne le conseguenze più aberranti e devastanti, favorire un reale sviluppo sociale sostenibile e non aggravare ulteriormente, diseguaglianze, emarginazione e marginalizzazione. Infine lo stesso elemento partecipativo all’interno delle imprese può essere utile a porre gli opportuni limiti ai pur legittimi interessi degli azionisti, specie in relazione ai temi ambientali e sociali, predisponendo Organi di Cogestione o almeno di Sorveglianza ed Indirizzo con la presenza di rappresentanti dei lavoratori e degli enti locali.
Ettore Rivabella