Roma, 19 ott – La miglior difesa, si sa, è l’attacco. Ma no, il calcio non esisteva ancora quando nel 204 a.C. Publio Cornelio Scipione, celebre stratega militare romano, ottenne dal Senato – non senza dubbi – il benestare per aprire un nuovo (e definitivo) fronte in quella passata alla storia come seconda guerra punica. Le ostilità sarebbero continuate sul versante africano. Roma contro Cartagine, qualcuno l’ha definito “il conflitto mondiale dell’antichità” – almeno per quanto riguarda l’area del mare nostrum. Ad ogni modo per costi, popoli coinvolti e – soprattutto – conseguenze, stiamo parlando senza alcun dubbio dello scontro bellico più importante di quel determinato periodo storico. Nel giro di due anni il discendente delle gens Cornelia ebbe la meglio su Annibale, la battaglia decisiva combattuta a Zama. Ma andiamo con ordine.
Un piano audace
Lo scontro tra le due realtà mediterranee, iniziato per il controllo del territorio iberico, andava avanti da quasi tre lustri. A differenza del primo conflitto (vinto “sul mare” dalla Repubblica), l’annibalico si combatteva sulla terraferma. E con il passare del tempo i fronti si erano moltiplicati, fino ad arrivare sul suolo italico.
Portando le ostilità fin dentro la nostra penisola, Annibale – il condottiero cartaginese – aveva messo a durissima prova il sistema romano. Fu così che dopo essersi assicurato l’Hispania lo stesso Scipione viene nominato console. L’idea, tanto azzardata quanto brillante, fu quindi quella di ribaltare il fronte e portare la guerra sulle sponde nordafricane. Prendere o lasciare: scoprire il fianco per costringere il temibile figlio di Amilcare al ritorno in patria.
La battaglia di Zama
Vittorie (e bottini) non tardarono ad arrivare. Già forte del suo contingente e dell’aiuto delle altre genti italiche, Scipione sul territorio nemico si assicurò anche l’importante servizio della cavalleria numidica. Eccoci al 19 ottobre 202 a.C., giorno della battaglia di Zama. Andato fallito ogni tentativo diplomatico, i due generali si ritrovarono faccia a faccia e armi in mano proprio nella località oggi riconducibile al villaggio di Djama, a Sud di Tunisi.
L’esercito cartaginese, leggermente più numeroso, poteva contare anche su un’ottantina di elefanti. Questi carri armati dell’antichità però si rivelarono un’arma a doppio taglio. I pachidermi, posti in prima linea da Annibale, vennero quindi “accolti” dalle trombe nemiche. Così, spaventati dall’assordante effetto studiato da Scipione, i pachidermi seminarono il caos soprattutto tra le file cartaginesi. Sì, perché le forze romane, conoscendo ormai l’avversario, si erano disposte in unità separate proprio per facilitare la fuga dei grandi mammiferi. E minimizzare quindi i danni della prevedibile reazione.
La cavalleria riuscì a sfondare le linee avversarie, mettendo in fuga gli opposti reparti. Il ritorno dei cavalieri romani servì pertanto a dar manforte alla fanteria che – quantitativamente inferiore – stava trovando ben più di una difficoltà. Roma aveva vinto di nuovo.
Scipione l’Africano
Le condizioni imposte ai vinti furono durissime: Cartagine dovette rinunciare a Malta e Spagna, versare per mezzo secolo un’indennità di guerra, ridurre all’osso la propria realtà militare, consegnare a Roma elefanti e prigionieri. E cosa, ancora più importante, la metropoli nordafricana perse gran parte del suo peso specifico nel bacino del Mediterraneo.
Non è un caso quindi che il mito di Scipione l’Africano sia quindi arrivato fino ai giorni nostri. “Dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa”, il preciso richiamo che Goffredo Mameli vergò per richiamare – in un contesto pronto alle guerre d’indipendenza dall’Austria – le eroiche gesta dei nostri grandi antenati. Ma questa è un’altra storia. O forse no…
Marco Battistini