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Gil De Ponti, l’eterno calciatore d’altri tempi

by Marco Battistini
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Roma, 11 ago – Tra la Via Emilia e l’Appennino tosco-romagnolo ci sono rivalità calcistiche che segnano le varie generazioni di tifosi senza soluzione di continuità. Si può amare la Viola e rimanere comunque legati ai colori del Bologna? E – allo stesso tempo – venire ricordati con affetto nella tanto vicina quanto odiata Cesena? Certo che no. Oppure sì, ma a patto di chiamarsi Gil De Ponti.

Il figlio delle stelle

Fiorentino del rione Lippi, Gianluca – questo il nome di battesimo – nasce nella città di Dante il 14 luglio 1952. Dopo anni passati a bucare portieri nella provincia (Impruneta, Terranuovese, Sangiovannese) alla veneranda età – per un atleta di quei tempi – di ventitre anni passa nelle file del rampante cavalluccio bianconero. È la stagione d’oro dei romagnoli: sesto posto in Serie A e storica qualificazione in Coppa Uefa. Non è titolarissimo, ma un imprevedibile combattente che conscio dei “limiti tecnici evidenti” si “mette al muro” per migliorare. E tanto basta.

Va peggio la seconda annata in riva al Savio, culminata con la retrocessione in cadetteria. Passa al Bologna, città dove le belle donne non mancano (tra le conquiste – pare – anche Gloria Guida e Serena Grandi). Ma il professionista è serio, tanto da potersi permettere alla luce del sole il vizio del fumo o, al chiar di luna, qualche uscita in discoteca. Segna sette reti, quasi tutte decisive. Come quella all’esordio nello 0-1 di San Siro contro l’Inter. Lo chiamano figlio delle stelle, anche se ben presto metterà su famiglia.

Gil De Ponti, un Bettega della provincia

Si ispira a Riva, lo paragonano a Bettega. Rimane legato alla realtà felsinea ma deve fare i conti con l’allenatore Bruno Pesaola che fa di tutto per mandarlo ad Avellino. Si definisce – molto modestamente – un “giocatore mediocre”, tuttavia il clima bollente del tifo irpino esalta le sue caratteristiche migliori. Non segna caterve di reti, anche perché in Italia “i difensori sono molto buoni”. A differenza dell’estero, dove oltretutto “si gioca a zona e i portieri sono molto piccioni”.

In doppia cifra ci arriva solamente con la maglia della Sampdoria, campionato cadetto della stagione 1980/81. Ancora Serie A, questa volta nell’Ascoli di Carletto Mazzone. Infine – prima dell’appendice tra Massese e un’esperienza in quel di Malta – il ritorno a Bologna. Biennio in chiaroscuro, con la prima retrocessione della storia rossoblù in Serie C prontamente riscattata da un’immediata promozione.

Gli aneddoti di un calciatore d’altri tempi

Capelli crespi e spettinati, baffo caratteristico, occhi di chi ha poca voglia di mettersi in posa, lineamenti importanti. Guardi la figurina di Gil De Ponti e subito pensi al giocatore tipo degli anni di piombo. Eppure già nel 1980 veniva definito dal Guerin Sportivo “un sopravvissuto del calcio d’altri tempi”. Lingua tagliente e carattere particolare, non sopportava la sudditanza psicologica di certe giacchette nere. Come quella volta che, mostrando il sedere, disse a Lo Bello “vabbè, mettimelo direttamente qui che fai prima”. Rosso diretto, magari ricordando i tempi del dilettantismo quando faceva in modo e maniera di liberarsi per le partite della sua Fiorentina.

Aneddoti divertenti (l’anatra al guinzaglio ai tempi di Cesena: “mi saltò dentro alla Porsche cabriolet. Si piazzò lì e non voleva scendere, la portai in giro per la città, poi si mise a cacare e fece un disastro”), altri decisamente meno. Ovvero il tumore alla testa – malattia prolungata da un errore medico – e la convinzione che nel calcio d’allora qualcosa sia andato oltre al consentito. Definì il suo modo d’intendere il pallone “una guerra che si spegne presto e senza tanti problemi”: funambolico lottatore, è riuscito a vincere anche la partita più importante.

Marco Battistini

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