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Quattro anni fa il no al nucleare della colonia Italia

by Armando Haller
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Blitz-di-Greenpeace-alla-centrale-nucleare-di-TricastinRoma, 19 lug – Credere che l’attuale condizione in cui versa l’economia italiana sia il prodotto ineluttabile delle leggi che governano i mercati è una semplificazione inaccettabile, che a malapena può passare nelle redazioni dei maggiori media nazionali. Più evidentemente, scontiamo il risultato di un insieme coordinato di misure ben studiate, che nel nostro Paese hanno avuto maggiore seguito almeno dalla fine del 2011.

Riduzione dei margini di autonomia a favore degli organismi sovranazionali, concentrazione della ricchezza e aumento delle distanze sociali sono solo alcuni tratti caratteristici dei recenti sviluppi promossi nell’ordinamento italiano. Fin nei più piccoli dettagli aventi forza di legge, dove dagli intenti si passa ai fatti veri e propri: qua si vieta, là si permette. Nessun settore escluso, tantomeno quelli più strategici per il governo, fra cui quello energetico e della produzione elettrica.

Proprio il 18 luglio di quattro anni fa, il Presidente della Repubblica recepiva per decreto il risultato referendario che abrogava le norme sullo sviluppo di un piano nucleare italiano. Un programma ambizioso, che avrebbe generato ricadute positive su tutto il sistema economico ma che avrebbe posto anche questioni più spinose, come la scelta dei siti e l’approvvigionamento di materie prime. Una rinuncia che ha obbligato il Paese a dipendere da fonti fossili inquinanti e provenienti da zone instabili oltre confine.

È difficile in questa sede esaminare in modo dettagliato lo scenario che avrebbe prodotto un esito referendario differente, sui prezzi dell’energia, sulla sicurezza del sistema elettrico, sull’occupazione e la ricerca. Ma dal momento che in Italia i referendum non si rispettano quasi mai, possiamo provare a immaginare i risultati di un programma nucleare quantomeno in termini di emissioni di gas serra, che unitamente ai progressi sul fronte del fotovoltaico porterebbero il nostro sistema elettrico su posizioni di avanguardia.

Secondo i dati resi disponibili da Terna, il gestore della rete di trasmissione (nella cui proprietà figurano a vario titolo anche i cinesi di State Grid e People’s Bank), nel 2012 il nostro sistema registrava un carico elettrico di base (quello che può essere coperto dalle centrali nucleari) prossimo ai 21000 MW. Una produzione coperta pressoché in toto dalla generazione termoelettrica, che potrebbe essere sostituita in circa 15 anni da 13 reattori di terza generazione, quelli da 1600 MW già pianificati e in fase di costruzione in diversi paesi europei. Posto un tasso di emissione della generazione termoelettrica pari a 527,7 gCO2/KWh, ne conseguirebbe (con le dovute assunzioni) un risparmio di emissioni di gas serra superiore a 100 milioni di tonnellate equivalenti di CO2, quindi una riduzione del 26% rispetto le emissioni dell’intero settore energetico nel 2012 (379,96 Mt equivalenti di CO2). Si tratterebbe di proporre un assetto analogo a quello di molti sistemi esistenti, anche confinanti con il nostro, nella maggior parte dei casi messi in discussione solo parzialmente dopo l’incidente di Fukishima.

Appare tuttavia più facile aspettarsi un salto in avanti nella produzione da solare fotovoltaico, dove la legislazione ha già previsto diversi meccanismi di incentivazione come il Conto Energia e i Sistemi efficienti di utenza (Seu).

Seppure con una dinamica attualmente fiaccata dal contesto macroeconomico sfavorevole, le previsioni sulla produzione da fotovoltaico mostrano un trend positivo su tutto il continente, con tassi di crescita compresi fra il 36 e il 78% ogni quattro anni (Solar Panel Europe – Global Market Outlook for Solar Power 2014/2019). Un tasso di crescita del 65% garantirebbe, nei prossimi 15 anni, un risparmio di emissioni di gas serra pari a circa il 24% rispetto i livelli del 2012 (-91 Mt equivalenti di CO2).

A frenare il posizionamento dell’Italia sulla fascia più virtuosa del trend potrebbe tuttavia esserci la prudenza del nostro assetto normativo. In particolare sui Seu, i sistemi che permettono rilevanti vantaggi economici in presenza di autoconsumo di energia prodotta con impianti fotovoltaici o di cogenerazione ad alto rendimento. Qui una vera e propria deregolamentazione degli impianti aprirebbe la strada a scenari di sicuro interesse: in particolare sulla nozione di “utente complesso”, sul limite a 20KW e sulla qualifica di “piena disponibilità” del sito (Delibera Aeegsi 578/2013). Sarebbe così possibile veder comparire tali impianti sui condomini, i centri commerciali e gli edifici pubblici. Una rivoluzione non da poco, dove su posizioni opposte troviamo ovviamente i player della generazione tradizionale.

dsddqwDue strade in salita ma da cui appare difficile allontanarsi se si vogliono raggiungere risultati importanti in termini di riduzione delle emissioni e dipendenza dagli scenari internazionali, dove abbiamo dimostrato di non avere la benché minima credibilità e capacità d’intervento. A poco serviranno i miglioramenti di efficienza nel settore dei trasporti e dell’edilizia (per ora molto modesti), se come afferma il mai smentito “paradosso di Jevons” in mancanza di una transizione del mix di generazione, i guadagni di efficienza conducono inevitabilmente a maggiori consumi di energia.

Niente panico, sfide industriali di questo livello appartengono a stati padroni del proprio futuro e con un’economia in salute. Dato il contesto attuale e senza cambiamenti di rilievo, nei prossimi vent’anni ci ritroveremo tutti in un’economia più al verde, con emissioni di gas serra del settore energetico che scenderanno ben oltre il 40%. Provate a indovinare il perché.

Armando Haller

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