Roma, 10 feb – Istituito con la legge 30 marzo 2004 n. 92 si celebra oggi il Giorno del ricordo, solennità civile che ogni anno ricorda i massacri delle foibe e l’esodo giuliano dalmata. Sono le tormentate vicende del nostro confine orientale: Istria, Fiume e Dalmazia compongono – da oltre due millenni a questa parte – un’importante pagina di storia italiana.
Regio X Venetia et Histria
Già Esperia per i greci, presso gli antichi romani Italia – al pari della stessa Urbe – era una potentissima idea. Sovrana delle province, centro sia della Repubblica che dell’Impero. Non proprio un’invenzione risorgimentale, come vorrebbe farci credere larga parte dei media. Di quell’unica unità geografica, politica e culturale che prende vita fa parte anche la Regio X, abitata dai veneti (tra l’Adige e il Tagliamento), da genti celtiche – come i carni – e dagli istri, bellicoso popolo di mare. Comprende Veneto, Friuli, Venezia Giulia, Trentino, zone dell’Alto Adige, territori della Lombardia orientale. Ma soprattutto il Carso e l’Istria.
Dal Medioevo fino agli inizi dell’età contemporanea anche Istria, Fiume e Dalmazia condividono il destino delle altre regioni italiane. “Calpesti e derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi” si potrebbe sintetizzare citando l’inno di Mameli. Con l’aggiunta di tutte le criticità che l’essere luogo di confine comporta. Avvicinandosi quindi al ventunesimo secolo arriviamo al 1797, anno cruciale per queste terre. Napoleone Bonaparte e il conte von Cobenzl firmano il Trattato di Campoformido: nonostante il successo sulle armate austriache il generale francese concede al nemico i possedimenti veneziani e dell’Adriatico orientale.
Istria, Fiume e Dalmazia: la slavizzazione asburgica
Nel suo romanzo “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”, Ugo Foscolo (1802) si fa portavoce di una generazione di patrioti tradita. La sempre viva fiamma della coscienza nazionale preoccupa l’autorità asburgica, la quale si gioca la carta del divide et impera. Favorendo, tra i vari sentimenti presenti, l’elemento slavo. Potenzialmente destabilizzanti, alle intuizioni mazziniane e garibaldine l’imperatore Francesco Giuseppe risponde – a partire dal 1866 – con energiche azioni “contro l’influenza degli italiani ancora presenti in alcune regioni della Corona”.
La città di vita
Siamo al secolo breve. La prima guerra mondiale e le promesse – poi disattese – del Patto di Londra. Parte della Dalmazia settentrionale e Fiume, abitata da venticinquemila connazionali, rimangono “lontane” dalla madrepatria. Una vittoria, appunto, mutilata. Contro il colpevole assopimento dello stato liberale si muoverà Gabriele D’Annunzio. Il Vate riunisce intorno a sé futuristi, nazionalisti, patrioti, reduci, esponenti del sindacalismo rivoluzionario. Con loro – tra gli altri – l’aviatore Guido Keller, il poliedrico Cornelio Andersen e l’ardito del Sol Levante Harukichi Shimoi. Il 12 settembre 1919 il Vate interpretando “la volontà di tutto il popolo d’Italia” proclama l’annessione di Fiume, città di vita.
Fascismo e confine orientale
Nel contesto del ventennio fascista abbiamo sentito più volte parlare di “assimilazione forzata”. Ma quello che successe in Istria, Fiume e Dalmazia non fu che il tentativo di (re)italianizzare un’area che, come abbiamo visto, solo pochi decenni prima aveva subito un’azione uguale e contraria da parte degli austriaci. Una pratica utilizzata altrove da Francia e Inghilterra, ad esempio. E anche dalla vicina Jugoslavia.
Il secondo conflitto mondiale complica irrimediabilmente il precario equilibrio. I controversi accadimenti del settembre 1943 e la successiva sconfitta militare dell’Asse vanno a comporre un quadro davvero complesso nel quale italiani, serbi, croati e sloveni si confrontano in sanguinose pagine di storia. Con lo sfondamento della linea Gotica (primavera del ‘45) inizia la “corsa per Trieste”. Angloamericani da una parte, l’esercito di Tito dall’altra. Con entrambe le fazioni interessate ad arrivare prima dell’altra nel controllo dell’importante porto della Venezia Giulia.
Istria, Fiume e Dalmazia: le foibe e l’esodo
Nello stesso periodo i partigiani jugoslavi e la polizia politica titina si rendono responsabili di quello che oggi conosciamo come eccidio delle foibe. Migliaia di italiani (e semplici oppositori) gettati nelle cavità carsiche. Spesso da vivi, sovente a guerra già terminata. Esecuzioni bestiali, anche dopo violenze, abusi e sevizie. Uomini, donne, anziani e bambini legati ai polsi con del filo di ferro e condotti nei pressi delle voragini: giunti sull’orlo, il boia giustiziava il primo della fila. Il quale, cadendo, trascinava con sé il resto dei condannati a morte certa. Insieme alle vittime – alle quali aggiungiamo anche quelle della strage di Vergarolla – incalcolabile è il numero di persone costrette a lasciare terra, casa ed affetti.
Altrettanto drammatico fu infatti l’esodo del popolo giuliano, dalmata e istriano verso lo Stivale. Su tutti l’episodio degli esuli partiti da Pola nel febbraio 1947. Dalla città citata da Dante nel nono canto dell’Inferno diretti ad Ancona. Dove si manifestò tutto l’odio della sinistra. Il convoglio continuò così per Bologna. Nel capoluogo emiliano i nostri connazionali avrebbero dovuto ricevere il conforto di un pasto caldo. Ma qui l’onta rossa proseguì: sassate sui convogli, sputi ai connazionali, latte destinato ai bambini gettato sulle rotaie. Il treno della vergogna era appena passato: a chi oggi – ancora accecato da quel che rimane dell’immonda ideologia comunista – vorrebbe cancellare, negare o anche solo minimizzare rispondiamo con la ferma fiaccola del ricordo di questa lunga pagina italiana. Lo dobbiamo alle genti di Istria, Fiume e Dalmazia. Lo dobbiamo alla nostra storia. Quindi al nostro futuro.
Marco Battistini