Roma, 26 ott – Durissima da digerire, ma la storia è un fluido continuo in cui i problemi generano le loro soluzioni oppure le escludono, e il puzzle israeliano-palestinese sembra l’ennesima conferma. Un conflitto che dura dalla metà del secolo scorso, in vie ufficiali o meno, in un territorio già di per sé frastagliato. Ci sono due ragioni per cui la soluzione dei “due Stati”, caldeggiata – non con chissà quale originalità – anche dal premier Giorgia Meloni sembra più una chimera che una realtà plausibile. La prima è geografica e la seconda riguarda Israele.
I “due Stati”: l’ostacolo geografico
Il territorio conteso in cui si trovano a convivere in modo pasticciato israeliani e palestinesi è già di per sé un puzzle, come dicevamo sopra. Un lembo di terra che affaccia sulla costa in cui prima c’è la Striscia di Gaza, poi un territorio a controllo stretto israeliano e infine la ancora più pasticciatissima Cisgiordania, tra occupazioni israeliane e arabi costretti a subirla, con tutte le conseguenze che conosciamo. In mezzo, Gerusalemme, nella testa degli israeliani – e solo della loro – capitale ma di fatto distante da esserlo in favore di Tel Aviv. Eventuali due Stati dovrebbero giocoforza avere conformazioni territoriali alternate, tra Gaza, Israele e la Cisgiordania eventualmente disimpegnata da Israele. Questo ammesso e non concesso – facendo fantapolitica – che quest’ultima si impegni mai un giorno ad abbandonare ciò che non le appartiene. Ma la storia degli Accordi di Oslo – diciamolo, comunque una soluzione arzigogolata, tra zona A, B e C previste nella nuova mappatura dell’area – non è confortante.
La storica ostilità di Israele
La seconda ragione, forse prioritaria se si bada agli effetti immediati, riguarda la storia di Israele: delle eccezioni ci interessa poco, come ci interessa poco degli israeliani favorevoli a una soluzione che metta una volta per tutte da parte questo conflitto sanguinoso. Ciò che recepiamo è il “risultato” del “gruppo Israele” in quanto comunità politica, sociale, nazionale sulla questione che preme più di tutti: la nascita di un concreto Stato palestinese. E il “risultato” di questa sintesi in cui navigheranno miriadi di eccezioni di cui – lo ripeto – ci interessa il giusto, ovvero zero, è solo uno: Israele non vuole la costituzione di uno Stato palestinese. Non ha mai dimostrato di volerlo, non ha mai dimostrato di accettarlo. L’unica volta in cui un suo leader – Yitzhak Rabin, che a questo punto possiamo identificare quanto “illuminato”, in quanto isolato dal contesto generale che è sempre andato in direzioni diametralmente opposte – ha dimostrato di perseguire realmente uno scopo simile, è stato ammazzato dai suoi stessi connazionali.
E la classe dirigente israeliana – parole vuote a parte – non ha mai dimostrato concretamente di voler proseguire nella sua opera. Ora, il ragionamento è elementare: se una delle due parti non ha alcuna intenzione – pur detenendo un potere effettivo decisamente maggiore della controparte – di realizzare ciò che sarebbe necessario allo scopo (che poi si traduce nell’unica questione: abbandonare immediatamente i territori occupati e lasciarli agli abitanti del posto), tutto ciò che se ne può dedurre è la sua genetica ostilità alla realizzazione. Come se ne esce? Bella domanda. Che la creazione dello Stato di Israele nel 1948 sia ormai irreversibile è un altro ragionamento che ci può stare (come a dire, ormai il pasticcio è stato fatto). Si potrebbe iniziare a riflettere sul fatto che anche il resto, a quanto pare, non abbia mai mostrato possibilità di sviluppo diverso, se non uno facilmente deducibile: l’intenzione israleiana – che non verrà mai esplicitata con le parole, ovviamente – di eliminare fisicamente il “problema palestinese” e di impadronirsi di tutta la zona.
Stelio Fergola