Roma, 2 lug – Somalia, 1992. La ex colonia italiana è lacerata da carestie e scontri armati tra i diversi clan che compongono l’eterogenea popolazione del corno d’Africa. L’ONU decide di intervenire per porre rimedio e stabilizzare la regione, così sotto la guida degli Stati Uniti, allora governati dal presidente Clinton, viene organizzata l’operazione “Ibis”, meglio nota come “Restore hope”.
A questa missione partecipa anche l’Italia nell’ambito della cooperazione internazionale che vede presenti anche forze del Pakistan, Belgio, Nigeria, Malesia, India, Australia, EAU. Il nostro è il secondo contingente più numeroso dopo quello americano: più di 800 uomini con veicoli corazzati VCC-1, blindo “Centauro” e carri M60 col supporto dell’incrociatore Vittorio Veneto, della fregata Grecale, del rifornitore Vesuvio e delle LPD San Giorgio e San Marco oltre a numerosi elicotteri da trasporto e, per la prima volta, 3 elicotteri da attacco A-129 “Mangusta”.
Questa prima fase dell’operazione ebbe vita breve, dal 4 dicembre 1992 al 4 maggio 1993, e fu subito seguita dall’operazione UNOSOM II che ebbe termine nel marzo del 1995, nell’ambito della quale avviene lo scontro armato che vedrà coinvolte le nostre Forze Armate, il primo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Il nostro contingente, comandato dal Generale di Brigata (Par.) Bruno Loi, riesce, a differenza di americani e pakistani, a destreggiarsi con successo nel dedalo di clan rivali di Mogadiscio, anche e soprattutto grazie all’eccellente lavoro della nostra intelligence militare che ha saputo preparare il terreno con efficacia ai nostri militari. Capacità, quella della “conquista dei cuori e delle menti”, che è sempre stata uno dei pregi delle nostre Forze Armate, unita, in questo caso, al retaggio storico/culturale che ha lasciato l’Italia in Somalia, retta ad amministrazione fiduciaria sino al 1960 dal nostro Paese sotto mandato britannico. Un decolonialismo ben diverso rispetto ad altre realtà africane o orientali.
Qualcosa, però, si ruppe la mattina del 2 luglio 1993.
Quello che era cominciato come un normale rastrellamento per i quartieri della città in cerca di armi, rapidamente diventa il primo ed uno dei più duri scontri a fuoco che le nostre Forze Armate abbiano mai dovuto sostenere.
L’operazione “Canguro 11” fu un sostanziale successo: le due colonne composte da VM-90, VCC-1 ed altri mezzi corazzati (denominate Alpha e Bravo) e provenienti l’una dal porto di Mogadiscio lungo la via Imperiale, l’altra dal villaggio di Balad, effettuano regolarmente il rastrellamento nel quartiere di Haliwaa, trovando un quantitativo di armi più numeroso del solito.
Lungo la via del ritorno però, accade qualcosa di insolito: le forze di polizia somale che accompagnavano i nostri militari, letteralmente si dileguano e pochi istanti dopo la colonna Alpha, nei pressi del vecchio pastificio della Barilla ora denominato “Checkpoint Pasta”, si ritrova davanti blocchi stradali di copertoni dati alle fiamme e decine di somali urlanti che cominciano un fitto lancio di pietre.
All’inizio sembra una semplice sommossa popolare ma presto cominciano a vedersi tra la folla, ora composta da centinaia di persone, persone armate di AK-47 e iniziano i primi tiri all’indirizzo dei nostri soldati.
La risposta italiana non si fa attendere, così i nostri soldati passano dal lancio di lacrimogeni a tiri diretti all’indirizzo dei cecchini somali annidati tra le strette vie e sui tetti delle case adiacenti alla via Imperiale.
Ma i somali continuano a fare affluire forze sempre meglio armate, e così alcuni VCC-1 vengono fatti segno dal fuoco di diversi colpi di RPG e immobilizzati. In uno di questi perde la vita il paracadutista Pasquale Baccaro (MOVM alla memoria) di soli 21 anni. Prima vittima italiana della giornata.
Dato l’inasprirsi dello scontro ed il rifiuto americano di inviare rinforzi, questione, quella della cooperazione tra comando italiano e americano tutt’altro che rosea, viene deciso di far ritornare la colonna Bravo, più pesantemente composta essendo dotata di carri M60 e blindo “Centauro”, verso il Checkpoint Pasta con l’appoggio dei “Mangusta” e degli AB-205 armati. In questa fase dello scontro i nostri corazzati non aprirono il fuoco con le armi pesanti, limitandosi ad effettuare fuoco di copertura per le nostre truppe data la presenza di numerosi civili tra i ribelli ma nonostante questo perde la vita il Sergente incursore Stefano Paolicchi (MOVM alla memoria) di 30 anni.
Contemporaneamente all’arrivo dei corazzati si registra la prima missione a fuoco dei nostri A-129 “Mangusta” che lanciano un missile TOW contro un VM-90 finito in mano alle forze ribelli, questo mentre la colonna Bravo, ora sotto il fuoco di armi pesanti, risponde al fuoco anche con i grossi calibri dei carri M60 all’indirizzo di posizioni fortificate dove si sono asserragliati i somali. Più o meno nello stesso istante, il sottotenente Andrea Millevoi (MOVM alla memoria) viene ucciso dal colpo di un cecchino mentre, sporto dalla torretta del suo “Centauro”, fa fuoco con la mitragliatrice da 12,7 mm per coprire il disimpegno dei soldati italiani. La terza e ultima vittima della giornata.
Alla fine di questo lungo giorno di luglio le perdite italiane ammontano, complessivamente, a 3 morti e 36 feriti, quelle somale a 67 morti ed un numero imprecisato di feriti. La violenta reazione opposta dai somali al nostro rastrellamento scosse notevolmente l’opinione pubblica, ma la vera domanda, alla quale forse non ci sarà mai risposta è: perché?
Alcuni ipotizzano che la nostra operazione sia andata molto vicina a catturare il leader della guerriglia somala Muhammad Farrah Aidid, cattura che avrebbe posto virtualmente fine all’insurrezione, ma negli anni a venire non sono mai arrivate conferme a questa ipotesi.
Non esiste solo “Black Hawk Down” quindi a ricordarci della Somalia, per molti, soprattutto per chi ha indossato una divisa e un basco amaranto, esiste anche “Checkpoint Pasta”.
Paolo Mauri
Somalia, 2 luglio 1993: la battaglia del "Checkpoint Pasta"
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