Parallelamente all’attacco intellettuale e mediatico del liberal establishment, ad ogni concezione che miri alla tutela e preservazione dell’identità etnico-culturale dell’Europa e dei suoi popoli, c’è il tentativo, in atto in sede normativa, in quasi tutti gli stati dell’Unione europea, di attuare un «sovvertimento socio-culturale» non solo di uno dei più elementari istituti della convivenza civile – la famiglia – ma della stessa realtà biologica umana, così come configuratasi nei millenni della sua evoluzione.
Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di maggio 2019
D’altronde, a un’umanità senza più distinzioni razziali, cioè culturali, anatomico-fisiologiche e psicologiche, non può che corrispondere un «tipo umano» privo anche di ogni elemento differenziatore sotto il profilo «sessuale», quindi né maschio, né femmina[1]. L’omologazione attuale dei desideri, dei bisogni, delle civiltà, è diretta conseguenza del «modello sociale» globalizzante e al «mondo unico» non può che corrispondere la «società unica», sotto tutti i punti di vista[2].
L’ideologia gender
In questa sede si faranno solo poche osservazioni sul tema. Uno degli indizi preoccupanti di questo lento e inesorabile processo di sovvertimento è rappresentato da alcune sconcertanti iniziative, come l’abolizione della festa della mamma e del papà – attuata in molte scuole italiane ed europee – sostituita con quella dedicata ad anonimi «genitori 1 e 2». Davanti a tale schizofrenia urgono alcune chiarificazioni che consentano di comprenderne la logica, e al centro della riflessione è la nuova «teoria gender», ovvero la nuova «ideologia» – ammesso che possa essere definita tale – di progressiva reductio ad unum delle distinte identità sessuali, con le aberranti conseguenze sociali sul piano dei modelli familiari di riferimento e dei connessi modelli educativi e comportamentali.
Le tragiche conseguenze di questo modo di procedere sono ravvisabili nelle generazioni contemporanee di eterni bambini, privi di spirito critico, ridotti, in gran parte, ad appendici biologiche dei personal computer o dei telefonini. Alla mancanza di modelli comportamentali, di regole, è da aggiungere la sempre maggiore assenza di una cultura diffusa che consenta di distinguere tra l’ambito pubblico e quello privato – tra ciò che è permesso e ciò che è proibito – con connesso obbligo di adattare i propri comportamenti (anche sessuali) ai diversi ambiti di vita sociale. Infatti, anche la sessualità personale è stata sradicata da qualsiasi contesto sociale più ampio (famiglia, comunità nazionale) e connesse tradizioni, come se il singolo individuo – in una sorta di paranoia solipsistica – anche nella gestione della propria vita sessuale, non debba rapportarsi alla comunità più vasta nella quale è inscritto, rispettandone le regole.
A tutto ciò è da aggiungere la recente rivoluzione terminologica nel descrivere certi comportamenti, certi orientamenti, che accresce ancora di più – e volutamente – la confusione in materia, sconfinando addirittura nel ridicolo di una nuova Babele lessicale. Com’è noto, anche il termine omosessuale è stato quasi totalmente bandito dal linguaggio politicamente corretto, venendo sostituito da quello di gay, ossia «gaio», «felice», quasi che l’orientamento eterosessuale o bisessuale di una persona la catapultasse, automaticamente, nella categoria dell’«infelicità», non essendo «omo». Oppure si pensi agli abusati termini omofobo e omofobia, per descrivere la «paura» nutrita verso coloro che hanno un orientamento sessuale non etero. Ebbene, queste parole non c’entrano assolutamente nulla con l’argomento in esame perché, etimologicamente, rimanderebbero alla «paura del simile» – dal greco ὅμοιος, cioè «simile» – senza che si capisca bene chi il simile sia, dal momento che si dovrebbe parlare, piuttosto – e in prospettiva «etero» – di paura del «dissimile»!
La famiglia e il politicamente corretto
Il gender, quindi,sembra proprio fare da supporto al «nuovo ordinamento mondiale» (edonista, materialista, individualista) caratterizzato dall’esaltazione della mancanza di ogni regola generalmente condivisa, in cui i desideri – per quanto legittimi – diventano automaticamente diritti, cioè pretese giuridicamente tutelate dalla legge, e in cui ogni individuo si gestisce come vuole, e la sua volontà detta norme a se stesso.
In poche parole, in base a tale schizofrenia giuridica, se esiste il «diritto» a contrarre un’unione legalmente riconosciuta con una persona dello stesso sesso – e ad adottare bambini o a prefabbricarne in provetta – non si capisce perché dovrebbe essere proibito anche contrarne più d’una – e contemporaneamente – con persone di sesso uguale o diverso dal proprio, o perché non si possa avere il diritto di essere più belli, più ricchi, di esercitare un lavoro più prestigioso e via di questo passo.
Diritti (in)civili
Com’è possibile notare, si tratta di «aspirazioni» tutte ugualmente comprensibili e legittime, a seconda degli individui, dei contesti culturali e sociali e delle esperienze soggettive di ciascuno, ma che non possono tradursi automaticamente in diritti soggettivi tutelati dall’ordinamento giuridico, senza determinare il collasso generale della società. Tra l’altro, quella del riconoscimento giuridico – da parte di ordinamenti giuridici europei – di unioni coniugali poligamiche o poliginiche è tutt’altro che un’ipotesi peregrina, se si considerano gli attuali orientamenti politici e ideologici dell’Unione, sempre più multiculturali e relativisti. Non è da escludere, infatti, che in un futuro non molto lontano alcune minoranze etnoculturali presenti da tempo sul territorio europeo – anche incoraggiate dall’afflusso sempre più massiccio di immigrati – inoltrino ai governi dei rispettivi Stati, attraverso i loro rappresentanti, anche una richiesta formale di riconoscimento legale di unioni di questo tipo. Inoltre, via di questo passo, non si capisce perché non ci si possa anche sposare tra parenti molto stretti dato che, secondo alcuni, anche l’impedimento alle nozze determinato dal tabu dell’incesto – il presupposto, cioè, dell’esogamia per la validità del vincolo coniugale – appare come un relitto di un passato primitivo e tribale.
Riguardo poi all’introduzione, nell’ordinamento giuridico italiano (e non solo) di unioni legalmente riconosciute tra individui dello stesso sesso, giustificata sul presupposto della mancanza di diritti di tali persone (i ben noti «diritti civili»), allora è opportuno rammentare che mai gli omosessuali sono stati privi della capacità giuridica e legale di agire, cioè della titolarità di diritti e della connessa capacità di perseguire i propri interessi, anche patrimoniali – perché di questo si tratta – nelle forme previste dall’ordinamento legale.
Infatti, mai l’orientamento sessuale personale ha impedito di compiere, davanti a un notaio, tutti quegli atti (donazione, testamento, legato, vendita, costituzione di rendita) necessari a garantire adeguate forme di protezione e sostentamento patrimoniale tra le persone. Del resto, le attuali «unioni civili» – come insegna anche il caso francese – non sono altro che il primo passo per la rivendicazione di ulteriori diritti e l’ottenimento di sempre maggiori concessioni, in vista di un’equiparazione totale tra le «varie» unioni coniugali.
Inoltre, il ricorso al notaio e l’applicazione di molti istituti del Codice civile potrebbero essere adoperati anche per risolvere eventuali problemi inerenti al mantenimento o all’educazione della prole di coppie omosessuali, nata da un precedente matrimonio eterosessuale. Anziché introdurre nell’ordinamento ulteriori istituti, si sarebbe potuto semplicemente consentire di applicare in via analogica – alle situazioni predette – le norme del codice civile inerenti ai rapporti giuridici familiari e relative all’obbligo dei genitori di mantenere, educare ed istruire la prole, tenendo anche in considerazione che, in base a tali norme, l’autorità giudiziaria può, in determinate fattispecie e in caso di disaccordo dei coniugi, intervenire con decisioni conformi ai principi dell’ordinamento e nell’interesse dei minori (si pensi all’art. 145 del codice civile).
I matrimoni gay
E a chi obietta che in mancanza di un’apposita legge non fosse comunque garantito agli omosessuali il diritto di «sposarsi», bisognerebbe far notare che sarebbero colpiti da eguale discriminazione giuridica anche gli affetti da handicap o, comunque, gli individui mancanti di determinate caratteristiche psico-fisiche che volessero accedere al corpo dei corazzieri, intraprendere la carriera militare o giocare in una squadra di basket, pur mancando dei requisiti minimi richiesti dalle norme in materia. Nel caso specifico del matrimonio, l’elemento mancante sarebbe la differenza di genere biologico tra i nubendi, presupposto indispensabile per la procreazione biologica e, quindi, per la valida costituzione del vincolo giuridico.
Infatti, storicamente – e al di là di distorsioni romantiche ottocentesche – la famiglia naturale, fondata sul matrimonio, in ogni società evoluta è istituto disciplinato dal diritto per un fine esclusivamente pubblicistico: la perpetuazione biologica dei privati e, attraverso di essa, dell’intera comunità nazionale. Attraverso i legami tra i coniugi – e la perpetuazione biologica – la società sopravvive e si perpetua nel tempo storico, con la sua cultura e i suoi istituti, mentre vasti legami giuridici (adfinitas) si costituiscono tra i nuclei familiari coinvolti nelle nozze, consolidando il tessuto sociale.
La famiglia tra natura e cultura
E all’osservazione di alcuni che, recentemente, hanno affermato che la «famiglia naturale» non esiste – perché la famiglia è un mero «costrutto» socio-culturale – bisognerebbe rispondere che i modelli familiari – quelli «istituzionali» – sono anche costrutti socio-culturali ma che, da sempre e in qualunque civiltà, si sono sempre modellati su biologiche, oggettive ed empiriche differenze di genere sessuale tra i nubendi, e ciò anche in contesti culturali poliginici o poliandrici.
E all’osservazione che anche il concetto di «natura» non sarebbe altro che una mera convenzione, bisognerebbe rispondere che, se fosse realmente così, verrebbero a cadere non solo le differenze biologiche infra-speciali tra generi diversi – maschio e femmina – ma anche quelle inter-speciali. Pertanto, nulla impedirebbe di considerare anche la «bestialità», cioè la congiunzione, biologicamente improduttiva, tra appartenenti a specie diverse, fondamento di un nucleo familiare.
Storia e tradizione
Riguardo, poi, al concetto di famiglia «tradizionale» – che sembra suscitare tante perplessità – è opportuno precisare che i presupposti giuridico-sociali per la validità del vincolo coniugale – base della famiglia «istituzionale» – sono rimasti pressoché invariati dall’età classica a oggi, nonostante la struttura familiare, com’è ovvio, abbia subìto alcuni cambiamenti. Si pensi al passaggio dalla famiglia «allargata», tipica di società preindustriali, all’attuale famiglia nucleare, composta unicamente da genitori e figli. Nonostante anche l’influenza del cristianesimo abbia determinato una mutazione in senso sacramentale del matrimonio, ciò non ne ha mai scalfito la funzione essenziale, che è rimasta pressoché identica dall’antichità ad oggi. Infatti, i requisiti, già riconosciuti dal diritto greco e romano, dell’eterosessualità, dell’esogamia e della monogamia dei nubendi, per la valida costituzione del vincolo matrimoniale, base giuridica della familia, si riscontrano anche nel diritto canonico e sono rimasti punti fermi delle legislazioni europee in materia fino all’età contemporanea[3].
Dunque, una tradizione, cioè una continuità diacronica, nella storia della famiglia, è rinvenibile. Ovviamente, ogni discorso vertente intorno al concetto di famiglia «tradizionale» deve essere circoscritto alla realtà storica ed etnoculturale dei popoli europei e non può estendersi ad altre «tradizioni» giuridiche e culturali diverse da quelle. Da notare infine che, sebbene la civiltà greco-romana fosse stata molto più tollerante, rispetto a quella medievale, in materia di omosessualità – e, persino, di pederastia – mai si arrivò al punto di istituzionalizzare famiglie diverse da quella fondata sul matrimonio eterosessuale.
La famiglia, inoltre, si qualifica come cellula sociale primigenia, in cui avviene – o dovrebbe avvenire – l’educazione e la formazione dei futuri cittadini, quindi come organo sociale di trasmissione di valori e, talvolta, di produzione economica. Da tutto ciò è infatti dipesa la necessità di disciplinare, con reciprochi diritti e obblighi, i rapporti tra i coniugi e tra i genitori e i figli, non certo dall’aspirazione, pur sempre rispettabile e legittima, a «vivere insieme», eventualmente salvaguardando anche le proprie aspettative patrimoniali[4].
L’amore non fa diritto
Il sentimento dell’amore tra uomo e donna – come elemento imprescindibile per la validità del vincolo coniugale – non è espressamente prescritto in nessuna norma dell’ordinamento italiano sul tema, neppure da quelle di rango costituzionale che disciplinano i rapporti familiari (artt. 29-31 della Costituzione italiana). L’amore, infatti, è elemento sempre molto labile e, nel caso del matrimonio civile e non concordatario (che è un sacramento e implica problemi diversi, anche di coscienza), si può ritenere un dato giuridicamente presupposto, ma non necessario alla validità del vincolo, tant’è che è sempre possibile che i due coniugi, davanti all’ufficiale civile che celebra le nozze, simulino un affetto che non c’è, per pura convenienza. Si tratta del cosiddetto «matrimonio simulato», impugnabile in sede giudiziaria da ciascuno dei coniugi ex art. 123 del codice civile, purché non si provi che abbiano effettivamente convissuto come coniugi dopo le nozze. In tal caso, il vincolo non è impugnabile.
D’altronde, il nome stesso del vincolo giuridico matrimoniale (matris munus) ne richiama l’imprescindibile funzione sociale (ribadita anche dall’attuale costituzione repubblicana). L’amore, quello vero, può infatti sussistere indipendentemente dall’istituzionalizzazione del vincolo familiare, anche nella semplice convivenza – non formalizzata da rapporti giuridici – e anche in un’unione tra persone del medesimo sesso. Il matrimonio e la famiglia, però, sono un’altra cosa, né il concetto di famiglia – contrariamente a quanto si dice – è circoscrivibile, socialmente e giuridicamente, ai soli coniugi, ma implica sempre l’esistenza di un gruppo sociale comprensivo di genitori e prole.
Partendo da alcuni dei deliranti presupposti culturali summenzionati, oggi, all’ «uomo organico» – con tutti i suoi limiti e difetti – si dovrebbe sostituire un’entità nuova, ibrida, poiché ogni differenza, anche di «genere sessuale», per il solo fatto di essere tale, è da considerarsi un prodotto di ingiustizie e discriminazioni e, quindi, da abolire sia sotto il profilo giuridico-sociale che familiare ed estetico. L’appartenenza al genere maschile o femminile, quindi, non può che esaurirsi nell’auto-percezione della propria identità, anche sconnessa dal sostrato genetico-biologico naturale che ne è alla base. Affermare che un uomo e una donna sono una tabula rasa – e che è possibile educarli e crescerli come si vuole, trasformandoli e riadattandoli a piacimento, ad esigenze diverse, non tenendo conto delle oggettive differenze biologiche e fisiologiche da cui spesso discendono diversi comportamenti e «strutture mentali», come ha evidenziato la biosociologia – è autentico prodotto della schizofrenia dei nostri tempi.
Inoltre, l’orientamento sessuale della persona, qualunque esso sia, non annulla la distinzione del genere umano in soli due sessi. Infatti, lo stesso ermafroditismo – cioè la compresenza, nella stessa persona, degli organi genitali di entrambi i sessi o di un abbozzo degli stessi – è un fenomeno molto raro negli organismi biologici complessi e, nella specie umana, è da considerarsi una patologia. Il «terzo sesso», quindi, non esiste e l’identità sessuale non è qualcosa che ognuno può scegliersi come un qualsiasi prodotto in vendita sul mercato.
Quale futuro per la famiglia?
Nell’attuale società, dunque, in cui le identità etniche e culturali si inventano e si forgiano «a tavolino», anche nella definizione della «sessualità» di un individuo, l’elemento biologico ha perso la sua priorità, per non parlare della negazione totale della necessità di «modelli comportamentali» distinti (uomo-donna, padre-madre) in ambito pedagogico, cosa che non postula affatto la negazione di dignità e degli eguali diritti dei sessi. È la nuova società globale, priva di regole e autorità, individualizzata e atomizzata, in cui si esalta lo sradicamento etnico-culturale e l’appiattimento tra i sessi.
Contro questo modello sociale, si avverte la necessità di una difesa, soprattutto da parte della «cultura laica», del modello tradizionale e, quindi, monogamico ed eterosessuale di famiglia, e ciò non per dichiarare ostilità pregiudiziali a chi ha orientamenti sessuali diversi, ma per ribadire e salvaguardare princìpi e strutture basilari che esprimono il nostro più profondo retaggio culturale e tradizionale di italiani ed europei. Perché è nella condivisione di valori comuni, usi, costumi che si regge la solidità del legame comunitario di un popolo, non nella fanatica e pervicace volontà di azzerarne il passato, sulla base dell’ottusa convinzione della superiorità del presente. Quella stessa eredità culturale e civile che spinse Cicerone, nel De officiis, a definire la famiglia e l’istituto del matrimonio principium Urbis et quasi seminarium Rei publicae (I 17,54), ossia «nucleo primo della città e per così dire vivaio dello Stato».
Ci si consenta, infine, un’ultima osservazione. Si resta indubbiamente sconcertati da come l’attuale società, evoluta e complessa, non sia più in grado di garantire la tutela dei diritti fondamentali dei cittadini (vita, lavoro, sicurezza, salute), ma si mostri così disponibile a favorire la proliferazione di diritti «superflui» – anche privi di qualsiasi ratio giuridica – in nome del più esasperato individualismo e a totale discapito dei corrispondenti doveri, categoria giurisprudenziale decisamente obsoleta.
Tommaso Indelli
[1] Per una visione attuale di queste problematiche si consiglia A. de Benoist, Famiglia e società. Origini, storia, attualità, Controcorrente, Napoli 2013.
[2] G. Damiano, Elogio delle differenze, Edizioni di Ar, Padova 1999.
[3] A. Guarino, Istituzioni di diritto romano, Jovene, Napoli 1997.
[4] M. Bessone (a cura di), Istituzioni di diritto privato, Giappichelli, Torino 1997.