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Il socialismo nazionale di Henri de Man

by Corrado Soldato
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Henri de Man socialista belga

«Dopo ogni contatto con la frenesia del mondo civile», scrisse Henri de Man in Après coup, l’autobiografia del 1941 pubblicata in italiano per la collana «Gli Indelebili» di Altaforte (A cose fatte: memorie di un «socialista nazionale»), «ero molto più lieto nel tornare di quanto lo fossi stato nel partire. Mi bastava respirare di nuovo l’aria inebriante delle altezze montane per sentirmi rivivere».

Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di maggio 2023

Le montagne che De Man ritrovava con gioia, dopo i suoi viaggi per l’Europa a tenere conferenze, erano quelle dei Grigioni, dove si era stabilito a metà degli anni Venti, nel villaggio di Flims. E i riferimenti alla terra elvetica tornano spesso nell’autobiografia di questo fiammingo (era nato ad Anversa nel 1885), poliglotta (parlava e scriveva fluentemente in olandese, francese, tedesco e inglese), giramondo sin dall’adolescenza (visse a lungo in Germania, visitò l’Inghilterra e la Russia, ebbe un’avventurosa esperienza in America). Uno a cui il natìo Belgio dava un senso di claustrofobia, che non provava invece in Svizzera, dove lo impediva «la prossimità delle cime montagnose agli immensi orizzonti che si stagliavano sullo sfondo». Nella Confederazione, peraltro, De Man si recava a praticare uno degli sport prediletti, lo sci. E proprio in Svizzera terminò la sua vita: morì esule a Morat, nel 1953, in un incidente automobilistico da alcuni considerato un suicidio.

Contro il materialismo

Ma chi era questo anversese esuberante e poliedrico che fu di volta in volta esploratore e ingegnere, insegnante e operaio, soldato e sindacalista, intellettuale e politico, teorico e uomo d’azione? Un personaggio che il suo collaboratore, e futuro europeista, Paul-Henri Spaak definì il «più autentico pensatore socialista del XX secolo», e uno dei rari individui che in certe occasioni gli diedero «l’impressione del genio»?

De Man fu innanzitutto un uomo di rottura. Rottura con l’internazionalismo proletario nell’estate del 1914, quando si arruolò volontario per fare la guerra ai tedeschi, essendo il popolo belga «costretto a battersi» e a lui sembrando inconcepibile l’idea di «non condividerne la sorte». Rottura con l’ortodossia marxista che gli aveva fornito, giovane borghese folgorato dal socialismo, il sistema più adatto a organizzare filosoficamente le sue innate aspirazioni alla solidarietà e alla giustizia; uno strappo, quest’ultimo, consumatosi in un decennio di intenso studio e feconda scrittura, da cui uscirono tre saggi – Il superamento del marxismo (1926), La gioia nel lavoro (1927) e L’idea socialista (1933) – che imposero all’attenzione dell’intellighenzia europea il suo revisionismo oltrepassante, in senso etico e volontaristico, le rigidità deterministiche del materialismo storico. Rottura, infine, con la democrazia parlamentare parolaia e corrotta, che pure aveva servito da ministro negli anni Trenta, quando i suoi progetti di riforma furono ostacolati dai conservatori di destra e sinistra, e dalla «piovra finanziaria» che nel Belgio dell’epoca allungava ovunque i suoi tentacoli.

Henri de Man e il Piano del Lavoro

De Man, però, fu anche un uomo di sintesi. Sintesi, nel suo travagliato percorso intellettuale, tra il nucleo genuino del socialismo e la migliore tradizione dell’umanesimo europeo. Sintesi nell’ideazione, all’inizio degli anni Trenta, del Piano del Lavoro (un programma finalizzato a riassorbire una disoccupazione che aveva assunto in Belgio proporzioni patologiche), e nella promozione del conseguente planismo (l’economia dirigistica che avrebbe dovuto far uscire il Paese dalle secche della Grande depressione), di statalismo socializzatore e di impulso all’iniziativa privata. Sintesi, nel progetto di «democrazia autoritaria» a cui infine approdò, di istanze rappresentative corporativiste e di rafforzamento, nello Stato, del potere esecutivo sul legislativo, reso inconcludente dai compromessi del parlamentarismo e condizionato dagli intrecci con l’alta finanza. Complessivamente, in De Man, una sintesi di socialismo e nazione che, per dirla con Zeev Sternhell, sapeva un po’ di fascismo, se è vero che nell’Europa tra le due guerre la «tentazione fascista» espresse anche – con tutti i limiti, le deviazioni e le storture del caso – l’aspirazione a una comunità nazionale socialmente più equa.

Non che Henri de Man, con il planismo, volesse davvero creare un fascismo belga, essendo quello spazio politico già occupato, all’estrema destra, dai rexisti di Degrelle. Egli piuttosto intendeva, come il suo omologo francese Déat, depurare il socialismo dalle incrostazioni veteromarxiste; fare piazza pulita del rivoluzionarismo verbale, e del conservatorismo di fatto, che impacciavano la prassi del Partito operaio, la sezione belga dell’Internazionale; imboccare una «terza via» socialista e nazionale, forse affine al fascismo, ma a esso concorrenziale nel cercare il consenso delle maestranze industriali, come dei piccolo-borghesi minacciati dalla proletarizzazione.

La tentazione fascista

In Italia comunque, dove i fascisti detenevano il potere dal 1922, e si accingevano a costruire un nuovo Stato etico e corporativo, il pensiero di De Man, anche prima della sua evoluzione planista, non passò inosservato. Con la stampa tra il 1929 e il 1931, per Laterza, delle traduzioni italiane del Superamento del marxismo – opera che attirò l’attenzione di Mussolini, il quale ebbe su di essa, con De Man, uno scambio epistolare di idee – e della Gioia nel lavoro, le tesi del fiammingo iniziarono a circolare e a essere discusse anche da noi. Suscitando consensi, ma anche perplessità. I corporativisti per esempio, animatori di un vivace dibattito sulla direzione da imprimere alla riforma fascista delle istituzioni e dell’economia, non erano indifferenti alle tendenze stataliste e pianificatrici diffusesi come misure anticrisi in Europa e Oltreoceano – tendenze tra cui rientrava il planismo. A occuparsi del quale fu Ugo Spirito, il teorico della corporazione proprietaria, in uno…

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