Bruxelles, 23 giu – Le parti sono vicine. Vicinissime. Separate da uno zerovirgola: lo 0.5% del Pil, pera la precisione, che balla fra Tsipras, Varoufakis e Juncker, Djsselbloem e Draghi. Tanto da permettere al presidente della Commissione Ue una ventata di ottimismo: “”Sono convinto che troveremo un accordo entro questa settimana“.
La trattativa deve ancora concludersi ma, salvo sorprese dell’ultimo minuto, dovrebbe portare ad un esito positivo. Entro il 30 giugno (o poco oltre) sarà così forse possible sbloccare le ultime miliardarie tranche di prestiti che servono ad Atene per ripagare i piani di aiuto varati negli anni scorsi. Prestiti che, in futuro, dovranno essere ripagati.
Il debito che insorgerà a conclusione dell’accordo serve per ripagare altro debito: uno schema da dissesto quasi conclamato. D’altronde la Grecia ha perso un quarto della sua ricchezza, la disoccupazione è passata dall’8 al 26%, il debito pubblica punta dritto verso il 200% del Pil. E non poteva essere altrimenti: anche senza aggiungere un euro, il rapporto debito/Pil sarebbe comunque aumentato, visto che le misure di austerità hanno fatto sprofondare il paese in una recessione ancora più nera.
A questo giro, lo schema non cambia. Ancora rigore, ancora recessione. L’Ue sembra averla spuntata su pensioni, riforma dell’Iva e tassa di solidarietà sui “ricchi” (in realtà le persone fisiche con reddito annuo superiore ai 30mila euro), ma non sulla revisione delle fiscalità di vantaggio per le isole. Ancora dibattute invece le clausole sull’avanzo primario. Nel precedente accordo il 2015 doveva chiudersi con un +4.5% del Pil, Tsipras è riuscito a far rivedere la soglia al +1% quest’anno, +2% nel 2016 e +3% nel 2017. Offrendo addirittura una clausola di garanzia per tagliare automaticamente le spese in caso di sforamento dei limiti. Un modo, si dice, per rassicurare i creditori sulla solvibilità del paese. E come, vietando allo Stato di spendere per sostenere un’economia destinata ad andare ancora più in asfissia?
Filippo Burla