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Così il comunismo uccise la speranza

by Claudio Siniscalchi
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Il più lucido e profetico critico del regime bolscevico, Aleksandr Solženicyn, ha osservato come il comunismo sia stato responsabile del «più grande massacro umano di tutti i tempi. Il fatto che la maggior parte del mondo sia ignorante e indifferente a questo enorme crimine è la prova che i media globali sono nelle mani dei carnefici».

Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di marzo 2023

Solženicyn è deceduto nel 2008. E questa sua puntualizzazione è ancor oggi attuale. La lunga notte del comunismo, anche dopo la rovinosa caduta nel 1989, ha dato luogo a due atteggiamenti: la rimozione e la falsificazione. In pochi hanno avuto il coraggio di guardare negli occhi il mostro e descriverlo per quello che effettivamente è stato. Perlopiù la ricostruzione dell’avventura comunista (l’idea di rivoluzione, lente di ingrandimento per decifrare il Novecento) ha oscillato tra l’esaltazione e la riprovazione, quasi sempre entrambe di parte. Le eccezioni sono state rarissime. Una, davvero portentosa, è contenuta nelle memorie di Nadežda Mandelštam, la cui prima parte è stata appena pubblicata da Settecolori: Speranza contro speranza (il secondo volume, Speranza abbandonata, uscirà presso lo stesso editore entro l’anno).

Nadežda, nata nel 1899 e morta nel 1980, vissuta in una famiglia benestante e colta, è stata la moglie di Osip Mandelštam, con tutta probabilità il maggior poeta russo del Novecento. Insieme hanno creduto, come tanti intellettuali, perlopiù giovani, alla Rivoluzione d’ottobre. È stata una grande illusione. Svanita nel dramma e nel sangue.

Il comunismo contro l’arte

Quando Lenin prende il potere nel 1917, l’unico sostegno autentico al nuovo corso bolscevico arriva dal frastagliato universo dell’avanguardia. Fra gli scrittori famosi il solo Maksim Gorkij collabora con i bolscevichi. Il resto del ceto intellettuale si tiene alla larga o boicotta apertamente la Rivoluzione. Agli esordi i bolscevichi non hanno bisogno di irreggimentare forzosamente gli artisti. A tenerli sotto controllo sono sufficienti censura ed espulsioni. Nel 1922 Lenin, con un gesto clamoroso, obbliga all’emigrazione forzata circa 200 intellettuali ritenuti ostili. I rapporti idilliaci tra avanguardia e bolscevismo si incrinano con estrema rapidità. Lenin non ha amato l’avanguardia né prima, né durante, né dopo la Rivoluzione, avendo gusti estetici piuttosto conservatori e una sensibilità culturale classica. Considera più di un poema di Vladimir Majakovskij «comunismo da teppisti».

Il suo successore, Stalin, nel corso di due anni stringe il cappio al collo della cultura. Il 23 aprile 1932 vengono sciolti tutti i raggruppamenti artistici. Nascono le associazioni di scrittori, architetti, cineasti, strettamente sorvegliate dal partito, di cui dovranno seguire le direttive. Andrej Ždanov, il «grande ideologo», al primo congresso degli scrittori sovietici, tenutosi a Mosca dal 17 agosto al 10 settembre 1934, fissa le linee guida dell’opposizione a ogni espressione di deviazionismo estetico: formale, decadente, religioso, piccolo-borghese. Viene così decretata la scomparsa di ogni pluralità e il «ritorno all’ordine», imposto nel rispetto di…

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