Roma, 19 giu – L’indiano Joseph White Klifford, il clochard di 58 anni che la notte del 17 febbraio 2014 uccise colpendolo con un colpo di cacciavite al petto Carlo Macro 33 anni, perforandogli un polmone è stato condannato a 14 anni di reclusione. Così si è espressa lo scorso 17 giugno, dopo più di un anno da quel terribile bagno di sangue, la prima Corte d’Assise di Roma presieduta da Anna Argento in merito ai fatti accaduti al Gianicolo. Il Pubblico Ministero, Francesco Dall’Olio, aveva richiesto per l’imputato 21 anni di reclusione considerando anche l’aggravante dei “futili motivi” che invece è stata ignorata dalla Corte.
Andiamo ai fatti. Era domenica notte alle 2 passate quando Carlo e suo fratello Francesco, dopo una serata nei locali trasteverini si dirigono verso casa. Fanno però una sosta su Via Garibaldi per fare la pipì e parcheggiano la loro automobile accanto alla casa del clandestino indiano Klifford che altra non è che una roulotte che gli è stata donata anni fa dalla comunità di Sant’Egidio. I fratelli scendono dall’auto senza chiudere gli sportelli, lo stereo è acceso e il volume sembra essere alto al punto da svegliare l’indiano che inferocito si precipita fuori dalla roulotte. Davanti a se trova proprio Carlo con cui inizia a litigare, all’inizio solo insulti e poi la ferita mortale. Klifford affonda due volte, sul petto del ragazzo un cacciavite lungo 30 centimetri perforandogli un polmone. Carlo morirà pochi istanti dopo, per una emorragia interna, nell’ambulanza che lo sta trasportando al Fatebenefratelli.
“L’ho colpito con il ferro che uso per chiudere la porta, volevo solo stare in pace, mi aveva svegliato una musica infernale, ero fuori di me” dichiarerà Joseph White Klifford confessando il suo omicidio. L’indiano irregolare sul territorio italiano, frequentatore quotidiano della Caritas, senza lavoro, con precedenti per lesioni e infrazioni della legge sull’immigrazione viene subito accusato di omicidio volontario. E dopo un anno la sentenza: nonostante i 21 anni richiesti dal pm, il giudice opta per una pena ridotta condannandolo appunto a 14 anni.
La madre di Carlo, Giuliana Bramonti, sofferente e profondamente amareggiata dice: “Puoi uccidere una persona e ti danno 14 anni, poi magari ne fai 8 e esci. Questa è la giustizia italiana”, e aggiunge “Per me non è che cambi molto, io non sono accanita per un anno in più o un anno in meno, nessuno mi restituisce Carlo. Certo è che se la vita di un ragazzo di 33 anni vale 14 anni di galera, significa che i valori sono ridotti a zero”. E poi sul non riconoscimento dei futili motivi da parte del giudice dice: “Sono evidenti, come è possibile che siano stati rigettati? E’ una sentenza che fa male, non in sé, perché anche se gli avessero dato l’ergastolo non sarebbe cambiato niente lo ripeto. Ma ne faccio una questione di rispetto delle regole, della verità, della giustizia”.
La signora Giuliana attacca il sistema roulotte e quello delle case mobili sparse nella capitale attribuendo una certa responsabilità alla Comunità di Sant’Egidio che lei ritiene essere “responsabili morali”. E rincara aggiungendo che “In tutto questo Sant’Egidio non ha espresso neanche un pensiero a riguardo, eppure tante delle roulotte ricondotte all’associazione non hanno targa, né assicurazione, violano il codice della strada”.
La madre poi si esprime anche nei confronti del sindaco Marino e del Comune di Roma: “Mio figlio è stato trattato come un cittadino di serie b, le istituzioni non si sono esposte come avvenuto in altri casi di morti violente, il Comune non si è costituito parte civile nel processo. Abbiamo dovuto chiedere attenzione tramite una petizione, lo abbiamo dovuto fare noi. E’ come se della morte di mio figlio non si sia voluto parlare”. Dopo l’accaduto infatti, e dopo le polemiche dei familiari di Carlo, il sindaco Marino si è limitato solo a inaugurare una targa in via Garibaldi in memoria di Macro e di “tutte le vittime della violenza generata dal disagio sociale”.
Nel frattempo giunge la notizia che l’indagine sulle roulotte, donate ai senza fissa dimora di Roma e oggetto di un’inchiesta per abuso edilizio, sta andando verso l’archiviazione. L’inchiesta che vede appunto coinvolta la comunità di Sant’Egidio è stata presentata dai consiglieri di opposizione Fabrizio Santori e Marco Giudici, proprio dopo la morte di Macro. I due specificano che la comunità non avrebbe solo goduto di un’impunità prolungata nel tempo ma anche che possa esserci stata l’ipotesi di “violazione del segreto di ufficio”, nel senso che la Comunità stessa abbia potuto beneficiare di “informazioni riservate alla Procura, con le quali ha potuto preservare i veicoli spostandoli dai luoghi dove le Forze dell’Ordine sarebbero intervenute nelle ore successive”. Giudici denuncia inoltre il “sottobosco di assistenzialismo illegale” dal momento che “queste roulotte ospitavano anche dei pregiudicati”. Come ad esempio nel caso dell’assassino di Carlo Macro. Santori e Giudici hanno chiesto al pm di proseguire le indagini per “eliminare questo fenomeno di assoluta illegalità” e hanno invitato i cittadini a “denunciare queste situazioni di degrado”. Ma per il pm il reato non sussiste.
Marta Stentella