Roma, 10 mar – “Come sei incinta tu? Non sei lesbica?”. A causa di questa battuta rivolta a una collega un autista di Tper spa, società emiliana di trasporto pubblico, è stato licenziato in tronco. Per la Corte di Cassazione, il licenziamento non solo è legittimo, ma il dipendente non ha nemmeno diritto ad alcuna indennità.
Licenziato per aver detto lesbica a una collega
La Corte di Cassazione è intervenuta sul caso, accogliendo il ricorso dell’azienda, dopo che nel 2020 la Corte di Appello di Bologna si era espressa ritenendo eccessivo il licenziamento e riportando il tutto a un recesso unilaterale da parte del datore di lavoro, condannando pertanto Tper a versare all’autista venti mensilità. Infatti, Per la Corte di Appello il comportamento di quest’ultimo era da interpretare come “comportamento inurbano”. La vicenda aveva avuto inizio quando l’autista aveva incontrato a una fermata del bus una sua collega, la quale aveva da poco partorito due gemelli. Evidentemente sorpreso, l’uomo aveva chiesto alla collega: “Ma perché sei uscita incinta pure tu? Ma non perché non sei lesbica tu?”. La donna, anche lei autista, aveva subito presentato un esposto all’azienda datrice di lavoro, che a sua volta aveva contestato all’uomo di aver tenuto “un comportamento gravemente lesivo dei principi del Codice etico aziendale e delle regole di civile convivenza”, licenziandolo in tronco.
La sentenza della Corte di Cassazione
Ora, la Corte di Cassazione con il verdetto 7029 della Sezione lavoro ha dato ragione all’azienda, ribaltando la decisione della Corte di Appello. Secondo la Cassazione, “la valutazione del giudice di merito nel ricondurre a mero comportamento ‘inurbano’ la condotta di Michele M. non è conforme ai valori presenti nella realtà sociale ed ai principi dell’ordinamento”. La sentenza prosegue specificando come questa “rimanda infatti ad un comportamento contrario soltanto alle regole della buona educazione e degli aspetti formali del vivere civile, laddove il contenuto delle espressioni usate, e le ulteriori circostanze di fatto nel quale il comportamento del dipendente deve essere contestualizzato, si pongono in contrasto con valori ben più pregnanti, ormai radicati nella coscienza generale ed espressione di principi generali dell’ordinamento”. Insomma, prendendo come riferimento anche il Codice delle Pari opportunità, la frase incriminata rientrerebbe nella casistica delle discriminazioni e delle molestie, ovvero “quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”. Perciò la Corte di Cassazione ha concluso ordinando alla Corte di Appello di rivedere la decisione verificando “la sussistenza della giusta causa di licenziamento alla luce della corretta scala valoriale di riferimento ”.
Michele Iozzino
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Si preparano tempi brutti brutti… Meglio così …