A oltre un secolo di distanza dalla prima edizione (Vallecchi, Firenze 1922), Altaforte ripropone, per la collana «Gli Indelebili», L’unità e la potenza delle nazioni di Enrico Corradini. Un classico della letteratura politica del primo Novecento, indispensabile per comprendere le idee che animarono la migliore stagione del nazionalismo italiano.
Enrico Corradini, l’araldo dell’Italia imperiale
Domenica 16 marzo 1919, nel romano Palazzo Macchi, si inaugurava il convegno dell’Associazione nazionalista italiana sulla «politica economico-sociale del nazionalismo». Era un appuntamento importante per i dirigenti e i soci dell’organizzazione, a cui infatti presenziarono in gran numero, come si legge negli atti congressuali, «i rappresentanti di quasi tutte le sezioni e di quasi tutti i nuclei nazionalisti d’Italia». Il primo esponente dell’Ani a salire sul palco degli oratori fu Enrico Corradini, che avrebbe poi tenuto una relazione sul tema a cui era dedicata l’assise. Rivolgendosi alla platea, dopo il rituale «commosso saluto» ai compagni di partito caduti nella guerra mondiale, egli dichiarò aperti i lavori, invitando i delegati a eleggere l’ufficio di presidenza. L’omaggio, i «fragorosi applausi», tributatogli in quell’occasione, non fu di circostanza. La calorosa manifestazione di consenso confermava piuttosto la qualifica che a Corradini, in quella sede, si attagliava più che a ogni altro: «padre nobile» del nazionalismo italiano. E questo perché egli era, per l’Ani, un’auctoritas. Così come oltralpe lo era Charles Maurras, per l’Action Française.
La disfatta di Adua e la conversione alla politica
Corradini, nato nel 1865 a Samminiatello da una famiglia di proprietari terrieri toscani, si laureò all’Università di Firenze, e i suoi esordi furono invero quelli di un letterato più che di un politico. Animatore nel 1892 della rivista Germinal, fu prima collaboratore, poi direttore del Marzocco fondato dal poeta Angiolo Orvieto, oltre che autore di narrativa e di teatro. La sua conversione alla politica avvenne relativamente tardi, nel 1896, dopo la sconfitta coloniale di Adua, allorché l’Italia – così si legge in una raccolta di scritti e discorsi corradiniani (Il nazionalismo italiano, 1914) – «giacque al fondo della sua miseria» e parve avviarsi alla «sua fine come nazione». Adua in effetti fu per il nostro Paese un trauma; ma un trauma in certo senso benefico, perché risvegliò e mise in moto le energie fisiche, psicologiche e intellettuali di chi non voleva rassegnarsi a essere, sul palcoscenico della storia, un comprimario o una comparsa. Muovendo da tale esigenza di riscatto, il nostro nazionalismo spiccò quindi il volo, stimolato da quella «prima seria offesa arrecata ai giovani sentimenti nazionali» (Ernst Nolte) a uscire dalla dimensione estetizzante delle riviste in cui era stato sino ad allora confinato; a dotarsi di una dottrina organica; e nel 1910, con il congresso di Firenze, a trasformarsi in un vero e proprio movimento politico: l’Associazione nazionalista, appunto.
Le campagne interventiste e l’adesione al fascismo
Dell’Ani Corradini fu organizzatore e dirigente di spicco. Membro del Comitato centrale e della Giunta esecutiva, cofondatore dell’Idea nazionale (l’organo di stampa del movimento, che diresse dal 1918 al 1920 dopo essere stato animatore, fino al 1905, della rivista Il Regno), partecipò da oratore e propagandista alle campagne per la conquista della Libia e l’ingresso italiano nel primo conflitto mondiale – «la guerra che il bene della nazione vuole», come dichiarò in un discorso del febbraio 1915, quando iniziavano a scaldarsi i toni della campagna interventista. E nel convulso dopoguerra – in un’Italia lacerata dalle polemiche sulla «vittoria mutilata», travagliata dalle divisioni politiche e dai disordini sociali, indebolita dalla crisi irreversibile del sistema liberale – allorché comparve all’orizzonte l’astro del fascismo di Mussolini, non sfuggì al toscano il potenziale di rinnovamento e di rigenerazione rappresentato dalle «camicie nere». Corradini – vincendo le resistenze di chi, nell’Ani, era restio a rinunciare all’autonomia organizzativa e politica del movimento – si prodigò affinché l’Associazione si fondesse con il Partito fascista (il che avvenne nel febbraio 1923). E lo fece perché, come scrisse sull’Idea nazionale all’indomani della marcia su Roma, fascismo e nazionalismo «altro non sono se non due diverse realizzazioni e manifestazioni di un unico moto politico», la dottrina della «sovranità del principio nazionale». All’edificazione del regime fascista peraltro, seppure in posizione defilata, Corradini diede il suo contributo, prima che la morte lo cogliesse a Roma nel 1931. Senatore del Regno dal marzo 1923, nel 1925 entrò nella Commissione per le riforme istituzionali (detta «dei diciotto» e presieduta da Giovanni Gentile) e nel Gran consiglio, per avere ben meritato «della nazione e della causa fascista». Né mancò di schierarsi nel dibattito sulla natura del fascismo – «molto vivace nei primi anni del regime», a detta di Renzo De Felice – esprimendosi sulla rivista Gerarchia per la subordinazione del Partito al governo, solo esecutore della «rivoluzione fascista» e «costruttore forte dello Stato forte».
Corradini, il «Maurras italiano»
Non solo oratore e politico, Corradini fu anche un brillante teorico; l’uomo a cui il giurista Alfredo Rocco, altra «testa d’uovo» dell’Ani, attribuì il merito di avere fissato i princìpi essenziali della visione nazionalista del mondo. E fu anche in questo il «Maurras italiano», il pensatore senza il cui contributo intellettuale il nazionalismo non sarebbe emerso, distinguendosene ideologicamente, dal milieu liberalconservatore che ne era stato l’originario brodo di coltura. Corradini elaborò la sua dottrina in diversi articoli e saggi, tra i quali spicca L’unità e la potenza delle nazioni, testo del 1922 riproposto in edizione critica da Altaforte – un lavoro che del toscano rappresenta l’opus magnum, un’autentica summa di pensiero. Scrittore forse incline alla retorica, dallo stile ricercato e a tratti arcaizzante (ma in questo figlio del suo tempo, come la veritas baconiana), era però un lucido argomentatore, metodico nell’analisi e fecondo nella sintesi, niente affatto privo di profondità teoretica. Corradini costruì infatti una teoria della nazione, dello Stato e dell’impero («opera di conquista degli Stati “eletti”») in cui confluivano alcuni temi fondamentali della cultura dell’epoca. Formulò un’idea spiritualistica di nazione come continuità delle generazioni (passate, presenti e future). Enfatizzò la centralità della «specie», sorta di spirito (in senso hegeliano) che agisce dietro le quinte della storia, muovendo i popoli come pedine sull’immensa scacchiera del mondo, determinandone ora l’ascesa ora il declino. Applicò alla geopolitica i concetti di statica e dinamica della fisica sociale positivista (che già aveva influenzato l’empirismo organizzatore di Maurras) e la distinzione, di matrice economica, fra territori «preproduttivi», «produttivi» e «postproduttivi». Con l’aggiunta di altri elementi ancora, in un’ampia sintesi filosofica irrobustita da massicce dosi della dottrina nietzschiana sulla volontà di potenza.
Un nazionalismo per la modernità industriale
Quel che è sicuro è che il Corradini ideologo, come anche il Corradini politico, non si attestò su posizioni di retroguardia, da «vecchia destra» reazionaria o notabilare, refrattaria alle pressioni della modernità, imbolsita nella laudatio temporis acti e nel culto stucchevole delle patrie memorie, arroccata nella difesa dell’ordine borghese. Fautore, come detto, di uno Stato forte, egli non vide in quello Stato la «guardia bianca» dei ceti possidenti contro l’avanzare del proletariato. Fu anzi attento ai nuovi fermenti dell’epoca industriale e sensibile (si vedano gli articoli del 1909 sul periodico Il Tricolore) alla funzione delle organizzazioni operaie, nell’ottica di una collaborazione di classe subordinata agli interessi nazionali. Non a caso, Rocco ne evidenziò il contributo all’orientamento delle idee nazionaliste sul lavoro verso un modello politico ed economico «a base sindacale e corporativa» antitetico alla democrazia parlamentare (Francesco Perfetti). E Angelo Oliviero Olivetti, su Pagine libere, scrisse che se il nazionalismo non aveva ancora eguagliato il sindacalismo rivoluzionario sulla questione sociale (il che, poi, era tutto da dimostrare), aveva però in comune con esso il culto anti-individualistico dell’«eroico» e una propensione tutt’altro che borghese all’impiego politico del «mito». Fautore della nazione sovrana, Corradini tuttavia non la intese come isola felice al riparo di ben vigilate frontiere, evitando così una «visione (antistorica) di nazioni pacifiche che, ognuna rinchiusa nel suo orticello, se ne vivono in tranquillità senza mai pestare i piedi ai vicini» (Valerio Benedetti). Araldo di una nazione proiettata nel mondo, capace di farsi potenza (nel senso politico-militare, ma anche economico, del termine), consapevole che si crea l’impero solo con una raffinata e sperimentata «tecnica imperiale», non propugnò insomma un patriottismo angusto e di corto respiro, ma un dinamico sovranismo ante litteram in grado di inserire l’Italia nel «grande gioco» dei blocchi che allora dominavano la scena mondiale.
Corrado Soldato