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Arezzo, la città della Boschi passa a destra. De profundis per Renzi?

by Eugenio Palazzini
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Riforme:Renzi,non so se lieto fine ma è buon inizioArezzo, 16 giu – Matteo si è fermato ad Arezzo. Ha pensato fosse cosa buona, è salito sulla bicicletta e si è accorto presto che la città ghibellina non è Firenze. Qua le salite tolgono il fiato, ti costringono ad arrancare anche se hai il giusto physique du rôle. Matteo si è fermato ai piedi di Corso Italia, ha scorto l’insegna della dimora accogliente Banca Etruria ed ha pensato fosse cosa fatta. Senza aspettare il settimo giorno ha affidato la bicicletta a Maria Elena e le ha sussurrato: “va’, ti basterà pronunciare il mio nome e davanti a te si apriranno le porte del Palazzo Comunale”.

Matteo Bracciali era già sindaco. Trent’anni, renziano della prima ora, già Segretario Nazionale Giovani delle Acli, sorridente. “Non mi chiamo Matteo a caso”, diceva candidamente. “Per i prossimi dieci anni amministreremo la città”, affermava trionfante. Un destino scritto nel nome, una strada già spianata. Per non lasciare nulla al caso ha voluto però spendere e spandere, o farsi spendere e farsi spandere se più vi aggrada, per una roboante campagna elettorale all’insegna di #unanuovastagione. Perché quassù in cima all’albero del sorriso i fiori si schiudono velocemente e nessuno osi pensare che un giorno potranno appassire. Quassù i giovani rampanti non odono le voci dei paria innominabili che storcono il naso e ti ricordano che sei il candidato di un partito che da nove anni governa la città e quindi no, non si tratta di #unanuovastagione. Quaggiù la plebe ciancia di solitastagione, senza hashtag perché la plebe cosa volete che ne sappia di Twitter.

D’un tratto però l’incantesimo è svanito. Tra gli innominabili si è fatto largo un ingegnere, un professore universitario, un ex assessore apprezzato dalla plebe per competenza e signorilità. Due sostantivi che giammai Matteo pensava potessero appartenere a chi si aggira laggiù tra i vocianti. Ed ecco che piano piano, senza bicicletta, questo ingegnere, questo professore, questo appartenente alla schiera dei barbari della destra, con l’indelebile macchia di avere persino un padre schieratosi con la Rsi, poi federale del Msi e fiero avvocato degli innominabili tra gli innominabili, i fascisti degli anni di piombo, si è incamminato verso il Palazzo Comunale. Dapprima ha cambiato la parola d’ordine che ne apriva magicamente le porte, non più il trendy Matteo ma l’epico Alessandro. Poi, forte persino di un programma elettorale pensato ad hoc con l’intento di riqualificare le zone degradate, assicurare maggiore sicurezza ai cittadini, descrivere un piano urbanistico volano di sviluppo economico (è vero, non si poteva leggere nulla riguardo la priorità assoluta per gli aretini, ovvero le nozze gay garantite dall’assessore #perunanuovastagione Romizi), ha costretto colui che era già sindaco a dover vincere un ballottaggio per poterlo essere sul serio.

Accadde che il rampante cadde dall’albero e i fiori di “colui che non si chiamava Matteo a caso” improvvisamente appassirono. L’analisi del risultato elettorale da parte dello sconfitto denota la spocchia che ha contraddistinto la sua campagna elettorale: “non costruire sull’offesa e sulla paura, non solleticare i peggiori istinti o battere le strade più semplici, ma rispondere con serietà, competenza e solidarietà alle povertà del nostro tempo.” Tradotto in lingua volgare, quella della plebe: noi siamo competenti, seri e solidali, gli altri no, e voi avete votato proprio quelli là, quelli brutti e cattivi che vi offrono solo un megafono per dar sfogo alla vostra rabbia. Come se non fosse proprio la rabbia di un popolo a dover porre fine ad uno status quo inconcludente e per questo deleterio, come se i cittadini italiani non avessero il sacrosanto diritto di non lasciarsi incantare dal renzismo senza per questo essere considerati dei barbari.

Per gli avatar caricaturati dell’ex sindaco di Firenze no, o accetti di vestire i panni del rottamatore cool oppure nel migliore dei casi sei un anacronistico residuo del passato, uno che non fa la spesa da Eataly ma dal droghiere sotto casa. Altrimenti, nei casi più malaugurati e scongiurabilissimi, sei un becero populista, uno di quelli che osa alzare la voce quando tutti intorno sono affetti da una silente sindrome di Stendhal, intenti a contemplare la luce riflessa del nuovo Vangelo secondo Matteo.

Matteo invece si è fermato ad Arezzo e forse non si è accorto che non vincere nella città più renziana d’Italia ha un preciso significato, più che essere un oscuro presagio. Le pagine del Vangelo iniziano a svolazzare lentamente verso i successivi capitoli del Libro. Forse non è ancora l’ora dell’Apocalisse, ma si odono già le note di un Requiem.

Eugenio Palazzini

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